Girato per lo show televisivo statunitense “The Midnight
Special”, gli Humble Piestupiscono con una versione live del loro classico “I
Don't Need No Doctor”, con i Black Berries
Nel 1973, il programma musicale statunitense The Midnight
Special aveva abbastanza influenza da trasferirsi brevemente dalla sua sede
abituale agli NBC Studios di Burbank, in California, a Londra, dove un episodio
fu girato nei grandi MagazziniBiba nell'altrettanto alla moda
quartiere di Kensington.
Biba iniziò la sua vita come boutique di moda per
corrispondenza nei primi anni '60 e aprì un negozio fisico dopo che un vestito venduto
fu pubblicato sul Daily Mirror. La sua somiglianza con un indumento indossato
dall'attrice francese Bridgot Bardot richiese 4000 ordini immediati e Biba li
soddisfò. Nel 1973 Biba si trasferì in locali più grandi, dove guidò la rivolta
del glam rock contro l'hippy con sette piani di prodotti desiderabili e attirò
un milione di clienti a settimana. E attirò anche gli Humble Pie.
Insieme a Steve Marriott e soci e ai coristi Black Berries
(Oma Drake, Jesse Smith e Clydie King) nello show c'erano i Procol Harum, Alvin
Lee e Mylon LeFevre, insieme ai folk Steeleye Span. E mentre l'intero
spettacolo è stato caricato sul sempre glorioso canale YouTube di The Midnight
Special a febbraio, è la cover degli Humble Pie di “I Don't Need No Doctor” di
Ray Charles – originariamente pubblicata dalla band due anni prima sull'album “Performance
Rockin' the Fillmore” – che è diventata il momento clou, perché presenta gli Humble
Pie nella migliore forma possibile.
"Wow!" esclama un commentatore. "È
il 9 aprile 2024 e sto ascoltando questa straordinaria esibizione e la voce di
Steve Marriott mi ha fatto alzare ogni pelo sulle braccia e salutare uno dei
più grandi cantanti di tutti i tempi! WOW!"
"Questo è il miglior filmato che ho visto della band",
aggiunge un altro. "Stellare."
"Cosa?! Da dove viene?", si chiede un
follower "Ho guardato tutti gli speciali di mezzanotte e non l'ho mai
visto prima! Ho visto i loro “In Concert” e le apparizioni di Don Kirshner, ma
questo è il miglior filmato dal vivo di Pie! E non l'ho mai visto in 20 anni
nemmeno su Youtube! Che scoperta!"
ARTICOLO ESTRAPOLATO E TRADOTTO DAL PORTALE DI GUITAR CENTER
La Fender Stratocasternon è stata pensata per essere un monumento immodificabile
e inalterabile.
Nelle cronache del tempo (1954), la neonata Stratocaster era
davvero uno strumento definitivo e rivoluzionario, ma non era ancora la
meraviglia che conosciamo, e ci è voluto quasi un decennio prima che
diventasse popolare.
Leo Fender era un genio, ma era anche un riparatore, un
ingegnere sempre teso al miglioramento continuo.
Quando progettò la Stratocaster immaginandola come strumento
"modulare", non stava scherzando perchè dopo 70 anni di modifiche e
sperimentazioni, continua ad evolversi.
Ma torniamo al calderone della creatività che ha definito la Fender
dal 1954 al 1965. Per la Stratocaster, questa era un'epoca in cui ogni
perfezionamento era forgiato dall'inventore stesso, insieme al suo team.
È stato anche un momento in cui importanti chitarristi degli
anni '50 e consulenti fidati hanno offerto input in tempo reale su come
continuare a migliorare le prime Stratocaster. Inoltre, Leo e il suo team hanno
potuto assorbire le esperienze del mercato, quando i musicisti, i negozi di
musica e altre aziende di strumenti musicali stavano sperimentando per la prima
volta questa nuova chitarra dell'era spaziale.
Qual era la ricetta originale della Stratocaster nel 1954?
Lo sviluppo della Strato ha richiesto un pool di
ingegneri, venditori e musicisti motivati e appassionati. Il parto è stato a
volte disordinato, e la storia è occasionalmente offuscata dai ricordi dei
partecipanti che rivendicavano il loro ruolo nel suggerire o migliorare alcuni
elementi del progetto finale.
Ma sappiamo che il modello di produzione Fender Stratocaster
è stato presentato "ufficialmente" nell'ottobre 1954. Eppure, anche
quella data porta con sé un po' di confusione, poiché ci sono rapporti secondo
cui le prime 200 Stratocaster lasciarono effettivamente la fabbrica nella
primavera del 1954. Tuttavia, Forrest White, all'epoca direttore della fabbrica
Fender, affermò che tutte le Stratocaster del 1954 prodotte prima del 13
ottobre 1954 erano probabilmente modelli di pre-produzione o d'artista venduti
direttamente ai musicisti della fabbrica.
In ogni caso, la Fender Stratocaster del 1954 arrivò sul
mercato al costo di $ 249,50 con tremolo ($ 229,50 senza). Ora, $ 249 nel 1954
sono circa $ 2.839 oggi, quindi la Stratocaster era un po' un oggetto di lusso
nell'era Eisenhower. (il direttore delle vendite della Fender, Don Randall,
aveva più volte chiesto a Leo una chitarra più raffinata che potesse competere
con la Les Paul di Gibson). I chitarristi nel 1954 potevano scegliere di
acquistare sei nuove Stratocaster o optare per l'auto più popolare dell'anno,
una berlina a quattro porte Chevy Bel Air quotata a 1.685 dollari.
Quando un musicista apriva la custodia per ammirare la
futuristica chitarra Fender del 1954 che era caduta nella sua orbita, la
nuovissima Stratocaster presentava una finitura sunburst bicolore su un corpo
in frassino, manico in acero arrotondato a forma di D, tastiera in acero,
lunghezza della scala di 25,5", raggio di 7,25", 21 tasti piccoli
(.078" di larghezza), tre pickup single-coil in Alnico III e la scelta di
un ponte fisso o di un tremolo sincronizzato Fender.
Come si può intuire a questo punto, ci volle un po' di tempo
prima che la Stratocaster si assestasse sulle sue specifiche di debutto, che
non rimasero ferme, mentre gli anni '50 e '60 andavano avanti.
Cronologia dei perfezionamenti della
Stratocaster
Sono stati scritti volumi sullo sviluppo della Stratocaster,
compresi i libri del team originale Fender, e gli esperti di vintage sono noti
per far piovere fuoco infernale su chiunque storpi anche un fatto
infinitesimale.
Tuttavia, come accennato in precedenza, anche le persone che
erano lì tendevano ad elaborare resoconti leggermente diversi su alcuni aspetti
della produzione della Stratocaster, il che è comprensibile, dato che la
fabbrica Fender era in procinto di ottimizzare il suo flusso di lavoro,
l'approvvigionamento di parti, bilanciare caratteristiche e redditività e
mantenere l'impegno di portare qualcosa di straordinariamente innovativo sul
mercato.
C'era un sacco di attività in corso nel think tank Fender e
nella sala di produzione durante il viaggio della Stratocaster verso la
versione che i musicisti potevano acquistare nel loro negozio di musica
preferito, ma proviamo a rendere questa linea temporale abbastanza
"direzionale", tanto da dare un'idea di base dei fatti e dei
collocamenti temporali.
Cerchiamo anche di concentrarci sulle caratteristiche che
possono avere una significativa rilevanza tonale, estetica ed ergonomica per i musicisti,
piuttosto che catalogare ogni singolo aggiornamento ingegneristico, come i
"percorsi a vite senza fine" nella cavità del pickup e il numero di
filettature delle viti. Ci siamo...
Marzo 1954
• Il sunburst della Stratocaster inizia come un
"one-burst". Fender ha semplicemente dipinto il marrone scuro intorno
al frassino naturale del corpo.
• Corpo super sagomato.
• I primi prototipi di tremolo avevano tre molle invece di
cinque.
• I potenziometri di volume e tono sono 100k con un albero in
ottone massiccio.
Maggio/Giugno 1954
• Una vera e propria raggiera a due colori rende la scena:
dal giallo canarino al marrone ambrato.
• I potenziometri del volume e del tono sono ora 250k, anche
se ancora in ottone massiccio. (L'idea potrebbe essere stata che i
potenziometri da 100k suonassero troppo scuri.)
• Il manico in acero in un unico pezzo ottiene una striscia
di noce dove è stato inserito il truss rod.
• La forma del collo è una D tozza e arrotondata.
- Attacco del collo a quattro bulloni.
• Il battipenna è un singolo strato di plastica ABS spessa
.060" con otto viti di fissaggio.
• I coperchi dei pickup e le manopole di controllo sono in
bachelite bianca (polistirene termoplastico).
• La barra del tremolo ha curve esagerate.
Ottobre 1954
• Inizia il capitolo del modello di produzione. Le
Stratocaster sono ora perlopiù costruite in una catena di montaggio.
• I potenziometri Volume e Tone passano all'albero diviso, a
causa del fatto che le manopole della Stratocaster sono a pressione, al
contrario delle manopole Telecaster dell'epoca che richiedevano un albero
solido per ospitare una vite di fermo.
1955
• I bordi della paletta diventano più affilati e meno
arrotondati.
• Le curve della barra del tremolo non sono così severe.
1956
• L'ontano sostituisce il frassino come legno per il corpo,
ad eccezione dei modelli biondi. Il sito web di Fender spiega il cambiamento
come "probabilmente per nessun'altra ragione se non per il fatto che
c'era, prontamente disponibile e più conveniente della cenere". Sul
fronte dei toni, tuttavia, l'ontano mostra una maggiore enfasi sulla gamma
medio-alta rispetto alla presenza luminosa e al calore equilibrato della
cenere.
• La forma del collo è ora una morbida V.
• Le curve della barra tremolo diventano ancora meno
pronunciate.
1957
• La plastica ABS sostituisce la bachelite per le manopole e
i coperchi dei pickup.
• La forma del manico è cambiata in una forte V. (Nota: la
famosa Stratocaster "Blackie" di Eric Clapton aveva un manico del
1957.)
1958
• Sunburst è ora di tre colori: dal giallo al rosso al
marrone scuro.
• Il collo assume una forma a D più sottile.
1959
• Tastiere in acero sostituite con palissandro in lastra. La
costruzione del manico è ora in due pezzi, anziché in un unico pezzo. (Nota: la
modifica potrebbe essere stata apportata per dare alla Strat un aspetto più
elegante. Da un punto di vista tonale, l'acero è generalmente caratterizzato da
un timbro incisivo e articolato, mentre il palissandro può suonare scuro e
caldo.)
• Battipenna cambiato in celluloide a tre strati
(bianco/nero/bianco) con 11 viti di fissaggio. Il colore è verde menta.
• Il collo inizia ad assottigliarsi e si assottiglia con il
passare dei mesi.
1960
• Nessun cambiamento degno di nota.
1961
• Per ridurre al minimo lo sbiadimento, alla finitura
sunburst viene aggiunto un rosso molto robusto.
• La componente marrone ambrata del sunburst viene cambiata
in nera.
1962
• Intorno all'agosto del 1962, la tastiera in palissandro
viene sostituita con una sottile impiallacciatura in palissandro laminato
rotondo. (Nota: le ipotesi sull'impatto tonale del cambiamento sono
impegnative, poiché Fender stava anche giocando con le forme del manico e i
pickup hanno iniziato ad avere più avvolgimenti sulla bobina, quindi un suono
più grasso.)
1963
• I contorni del corpo diventano leggermente meno drammatici.
1964
• Il raggio di sole a tre colori assomiglia più a un
"bersaglio" con una minore fusione tra i colori.
• Il battipenna è ora bianco, in plastica a tre strati, che
sostituisce il verde menta.
• Il rimodellamento del corpo diminuisce ulteriormente,
soprattutto a livello dell'avambraccio destro.
1965
• La paletta viene ingrandita a dicembre per consentire una
decalcomania Fender più grande.
• Tastiere in acero offerte come opzione.
Ma qual è l'anno migliore di sempre per la Stratocaster?
Molti storici, collezionisti e
addetti ai lavori considerano il 1962 come l'anno migliore per la
Stratocaster. Il corpo in ontano e il manico in acero con una sottile
tastiera impiallacciata in palissandro, offrono il punto forte sonoro per gli
appassionati di Strat.
Inoltre, possiamo supporre che la formula di base della
Stratocaster si fosse stabilizzata nel 1962, rendendo più facile per gli operai
della catena di montaggio produrre chitarre più coerenti e una migliore qualità
complessiva.
Ma mettiamo i bastoni tra le ruote.
Quali date di produzione nel 1962 – e quali strumenti nel
1962 – sono esempi straordinari della maestosità vintage della Stratocaster? E
com'è possibile che due Stratocaster del 1962 apparentemente identiche possano
presentarsi, con una che suona in modo assolutamente glorioso, e l'altra che
esibisce toni e suonabilità "appena medi"?
Sì. Le cose possono diventare un po' confuse. Ecco perché...
• La produzione da parte dell'uomo può essere irregolare. Gli
esseri umani non sono macchine CNC (Computer Numerical Control). Mentre nel
1949 è stato utilizzato un sistema CNC per modellare le pale degli elicotteri,
l'uso di questo costoso macchinario non è stato certamente diffuso fino a molto
tempo dopo, soprattutto per la produzione di chitarre. Quindi, un dipendente
che carica i pickup con i postumi di una sbornia, o che non vede l'ora che
arrivi il fine settimana di venerdì, o che ha un problema tecnico al cervello
mentre modella un raggio di 7,25" su un manico (e lo trasforma in un
raggio di 6,75" o 7,75") può "modificare" in modo
significativo la sensazione di una Stratocaster del 1962. Oggi ci aspettiamo
tolleranze di produzione costanti. Nel 1962…
•Parti. A Forrest White viene attribuito il merito di aver
trasformato la prima fabbrica Fender in un impianto veramente professionale e
operativo. Ma White aveva ancora le sue sfide con gli inventari, gli utensili
meno sofisticati e la modifica delle parti per adattarsi ai perfezionamenti del
design a metà degli anni '50 e all'inizio degli anni '60. Il risultato è che
tutte le Stratocaster del 1962 potrebbero non avere esattamente le stesse parti
da cima a fondo. Questo non vuol dire che la qualità variasse molto da Strat a
Stratocaster, ma spiega perché alcune del '62 sono filet mignon e altre sono
T-bone.
• Miglioramenti immediati. Avere a che fare con una mente
ingegneristica sempre alla ricerca come quella di Leo Fender, con le sue
costanti idee di miglioramenti e perfezionamenti, può mettere a dura prova un
team ufficiale. È probabile che le parti e i processi si siano evoluti in
concomitanza con l'individuazione da parte della fabbrica per quanto riguarda
l'efficienza e altri elementi essenziali del flusso di lavoro. Ancora una
volta, tenere il passo con i cambiamenti di progettazione in fabbrica non significava
che il controllo qualità diminuisse, ma anche piccole incongruenze nelle parti
e nella manodopera potevano produrre un'eccezionale Stratocaster del 1962, o
una Stratocaster media del 1962.
Altri anni eccellenti per la Stratocaster pre-CBS
Agli storici piace chiamare il 1954-1965 qualcosa come la
"Prima Grande Era Fender". Il
5 gennaio 1965, Leo vendette la sua azienda alla Columbia Broadcasting System e
iniziò la cosiddetta "Era CBS" (1965-1985). Naturalmente, la
Stratocaster non cambiò da un giorno all'altro con la proprietà della CBS,
poiché qualsiasi cosa Fender stesse facendo nel 1965 impiegò un po' di tempo
per esaurirsi a causa delle rimanenti scorte di parti e dei processi di
fabbrica, nonché del fatto che la nuova gestione doveva ancora imporsi in modo
significativo sui progetti per il futuro.
Mentre quasi tutte le Stratocaster dell'anno solare prodotte
durante l'era pre-CBS sono considerate "da collezione", se cerchiamo
altre opzioni degne di nota oltre al già citato modello del 1962, ci sono due
validi contendenti:
• 1954. Non è una sorpresa. Era il primo anno di produzione e
ha gettato le basi, inchiodando la maggior parte delle caratteristiche
essenziali della Stratocaster, anche tenendo conto dei perfezionamenti a
venire.
• 1957. Il modello del '57 è quello in cui il manico è
diventato davvero comodo con la sua forte forma a V. E mentre le forme del
manico hanno continuato a essere perfezionate per una maggiore suonabilità
negli anni successivi, non guasta il fatto che l'illustre Stratocaster
"Blackie" di Eric Clapton avesse un manico del 1957.
Le attuali collezioni Fender, come i modelli Vintera II
"Best of the Decades" e American Vintage II (che si concentra su anni
specifici), possono portare estremamente vicino alla sensazione e al suono
delle Stratocaster vintage, e a prezzi "non vintage". Ma se si vuole
davvero provare un autentico strumento vintage, con tutta la storia, le
canzoni, i suoni e le storie di strada all'interno, occorre scoprire una
Stratocaster old-soul.
Tuttavia, non c'è bisogno di setacciare case d'asta, negozi
vintage eleganti e vendite immobiliari (sperando che una Stratocaster del 1954
in ciliegia sia raggruppata con una scorta di figurine Hummel da collezione)
per trovare una chitarra pre-CBS o successiva che ti parli. Se ne trovano…
Leo Fender ha scatenato una serie di "successi"
mastodontici che hanno cambiato il mondo della chitarra. Dalla nascita della
Telecaster nel 1951, passando per vari amplificatori e bassi Fender che
divennero gli standard della loro categoria, fino alla Stratocaster, Leo
sembrava avere una sorta di folle potere profetico, quello di vedere nel futuro
della musica elettrica, e non sapeva suonare una canzone o accordare una
chitarra.
Ma poteva sicuramente guardare oltre.
"Nel 1952, ho potuto vedere che la musica stava
cambiando", ha detto Fender alla giornalista Joelle Steele nel 1977.
"C'era una crescente richiesta di un volume maggiore e di un collo più
veloce".
Da quella lungimiranza, è nata la macchina che ha ispirato
musicisti di tutti gli stili, dal blues al metal, dal punk rock al rock
classico, dal funk al jazz e oltre. E non dimentichiamo mai che il chitarrista
che alla fine degli anni '60 ha rotto le barriere artistiche e ha cambiato la
chitarra rock per tutti – uno stregone sonoro di nome Jimi Hendrix – ha scelto
la Stratocaster per dare voce alla musica nella sua testa.
Ma lungi dall'essere una reliquia degli anni '60, la
Stratocaster in continua evoluzione ha fatto la scena durante l'halftime show
del Super Bowl l'11 febbraio 2024, quando H.E.R. ha sfoggiato il suo
caratteristico modello rosso e cromato. La Stratocaster è una chitarra per i
secoli, perché non invecchia.
Mentre altri membri del team Fender hanno certamente
contribuito allo sviluppo della Stratocaster e meritano un riconoscimento per
tutto ciò che è diventata, possiamo ringraziare Leo Fender su tutti gli altri
per la sua visione senza tempo. Infatti, quando l'editore emerito di Guitar
Player, Tom Wheeler, stava compilando il suo libro The Stratocaster Chronicles,
chiese direttamente al progettista/ingegnere Fender Freddie Tavares se la
Stratocaster fosse "essenzialmente" un progetto Leo Fender.
"Senza esitazione", rispose Tavares senza un
secondo di pausa, "tutte le chitarre erano essenzialmente un progetto
di Leo".
È di questi giorni la scoperta di un avvenimento musicale che
mi ero perso.
Ho una giustificazione, stiamo parlando di metà luglio 1982,
e dopo un mese mi sarei sposato, quindi, avevo altro per la testa!
Resta il fatto che le intemperanze e gli scontri nel corso
dei concerti erano azioni tipiche della metà anni ’70, ed è strana la mia
totale estraneità rispetto all’evento. Ma facciamo un passo alla volta per ricostruire
qualcosa di storico, la cui portata “sentimentale” accompagnava di pari passo gli aspetti
musicali.
La mia ricostruzione parte da un documentario approdato su Netflix
a fine 2022, realizzato da Salvo Cuccia, sui cui sono “inciampato”
casualmente in questi giorni.
Il focus è la ricostruzione dei momenti trascorsi in Sicilia
da Frank Zappa nell’estate del 1982.
“Summer ’82: When Zappa came to
Sicily”, è questo il titolo, riesce innanzitutto a divertire e
sorprendere, nel farci scoprire le origini siciliane del geniale musicista - il
cui padre aveva lasciato la desolazione di Partinico per emigrare negli USA - e
nel farci rivivere la visita di Zappa nel paese in provincia di Palermo, nelle
ore precedenti il concerto di chiusura del tour mondiale del 1982 allo stadio
di Palermo. Ma cosa accadde quel giorno?
Frank Zappa a Palermo: storia del
concerto finito a "schifiu"
Il 14 luglio 1982Frank Zappa conclude il suo
tour europeo alla Favorita, stadio di Palermo. L’esibizione durerà solo 40
minuti, caratterizzati da spari, lacrimogeni e manganellate.
Una notte fallimentare, e dire che quel concerto era atteso
da una vita!
Sono passati tre giorni dalla conquista del mondiale in Spagna,
un momento felice, anche se da quelle parti, soprattutto in Sicilia, le bombe
non mancano.
La festa, dopo l’inusuale successo calcistico, prosegue ora a
Palermo, un grande evento stà per andare in scena.
14 luglio 1982, tutto esaurito, e non potrebbe essere
altrimenti, per il Genio di Baltimora.
Il cantautore statunitense sbarca a Punta Raisi il giorno
prima. La notte fa un giro a Partinico, a caccia delle origini, senza grande
successo, poi rientra a Palermo, per rilassarsi in vista del concerto
dell'indomani. Non immagina ciò che lo sta aspettando!
È un 14 luglio che profuma di rivoluzione. Giornata calda, il
sole spadroneggia già dal mattino, e memorabile. Palermo si divide in due. C'è
chi si incammina verso il centro per celebrare la Santuzza, chi invece è in
ansia per l'arrivo di Frank Zappa e inizia il pellegrinaggio verso viale del
Fante. La scelta del giorno sinceramente è discutibile. C'è il Festino, un
fiume umano invade le strade, mentre a pochi chilometri di distanza esplode
l'adrenalina per l'ultima tappa europea di Zappa. Energia e passione: ad
attendere l'idolo americano c'è una Palermo straripante di entusiasmo. È un
mercoledì sera, da leoni. Il biglietto costa ottomila lire. Dopo Danimarca,
Svezia, Germania e Inghilterra, Zappa sta chiudendo il tour nel Vecchio
Continente (quello che poi darà vita all'album "The man of Utopia")
con un concerto a Palermo, alla ricerca delle radici (il padre era di
Partinico). "Avevo aspettato tutta la vita quel concerto e invece…
Perché questa è la storia di un concerto maledetto, in una
notte di mezza estate. E che estate, per Palermo. Cominciata con la strage
della circonvallazione - a metà giugno - e chiusa con l'omicidio di Dalla
Chiesa, il 3 settembre. Si spara e si piange, la mafia fa quello che vuole, la
città si guadagna paragoni poco invidiabili. Palermo come Beirut, Palermo
capitale della malavita. Eppure, il treno del riscatto passa all'improvviso, a
velocità supersonica. E atterra sul prato spelacchiato della Favorita.
Quando alle 21 inizia il concerto, la folla saluta con un
boato: sotto i baffi di Frank Zappa c'è una città che si sente finalmente
"normale", proiettata in una dimensione speciale, quella del grande
rock. Ma siccome questa è la storia di un concerto da incubo, quella che si
materializza è una notte fallimentare. Iniziata in modo promettente, con il
check sound apripista, con tanto di band che improvvisa quattro calci al
pallone sul prato. Ma è un fuoco di paglia.
È tutto sbagliato: la scelta della data e quella
"logistica". Il palco è sistemato sotto alla tribuna, all'altezza del
centrocampo. La capienza è di 25 mila, quella massima consentita. La gente
affolla la Curva Nord e la gradinata, all'ombra di Monte Pellegrino. Ci sono
almeno 50 metri tra palco e pubblico. La resa visiva e acustica è disastrosa. I
musicisti - c'è anche un giovanissimo Steve Vai - sono dei puntini lontani e la
musica arriva quasi "difettosa". Non un granché per un concerto di
questa portata. Anzi, sembra un incubo. "Così improvvisamente tre
ragazzini decidono di scendere ed avvicinarsi al palco, e rompono un
cancelletto. Di lì a poco tanti altri si mettono in scia e invadono il prato. A
quel punto si crea il caos. Le forze dell'ordine intervengono pesantemente
lanciando lacrimogeni ad altezza uomo. Si scatena il panico totale".
La scelta di sistemare il palco lontano dal pubblico forse
era stata fatta per tutelare il prato e non creare problemi al Palermo calcio.
Decisione discutibile con il campionato in vacanza, in pieno luglio. Così
mentre a pochi chilometri di distanza impazzano i fuochi e la folla celebra la
Santuzza, altrove c'è una Palermo che fa a pugni con la storia. "È stato
tutto assurdo - è il ricordo dei presenti -. Non c'è stato alcun assalto.
Carabinieri e poliziotti non erano minimamente coordinati. È stata una reazione
esagerata. Bastava mettere tre agenti davanti al cancello per impedire
qualsiasi invasione".
Sul prato e sugli spalti piove una raffica di lacrimogeni. In
un attimo, il pubblico cerca di tornare sui propri passi, si muove per
raggiungere l’uscita. Qualcuno riesce a scavalcare e guadagnare le scale. Altri
trovano le porte chiuse e la polizia ad aspettarli. Spintoni, urla,
manganellate, sangue. Sono passati 30 minuti dall'inizio del concerto ed è già
quasi tutto finito. Zappa canta, poi piange. Ci riprova. Allora chiama Massimo
Bassoli, storico amico e biografo dell'artista "Massimo come here",
urla a gran voce. La risposta è inoltrata alla folla: "State seduti per
favore". "Massimo, what is happening?"."È tutto a posto", cerca di
rincuorarlo l'amico. Ma non è vero. Perché invece alla Favorita sta succedendo
l'impossibile.Zappa ripete: “Easy,
easy”. È una tempesta di lacrimogeni. Un candelotto finisce sul palco e
sfiora il batterista. Sotto c'è una guerra, tra spari e lanci di pietre. "Basta,
andiamo via". Dopo 40 minuti, Zappa si rintana in camerino. Il
concerto è finito”.
L'unica cosa che rimane da fare - pensano molti palermitani
disillusi - è sfogare la rabbia fuori dallo stadio, per quella che reputano
un'assurda e immotivata reazione di alcuni poliziotti. Probabilmente - è la
versione popolare - molti di loro avrebbero preferito partecipare al Festino e
per loro essere di servizio al concerto era insopportabile. È una notte lunga.
I disordini proseguono fino a tardi. Gli spettatori sfollano, dispersi e
inseguiti, tra botte e lacrimogeni. Scoppia una guerriglia tra le strade
attorno allo stadio. La polizia carica, i fan rispondono. I tafferugli
palermitani fanno il giro del mondo. Dopo il concerto si rincorrono le accuse.
Gli organizzatori puntano il dito contro la polizia: la responsabilità è tutta
loro - dicono - e alla leggerezza con cui hanno fatto ricorso ai gas
lacrimogeni. La questura replica che il vero timore era che tutti gli
spettatori della gradinata potessero entrare in campo.
E Zappa? Chi lo conosceva bene ha più volte sottolineato la
delusione per la figuraccia in quello che doveva essere un ritorno a casa. Ma
la culla palermitana lo ha respinto subito dopo 40 minuti insipidi. La star di
Baltimora rimase molto scossa anche da altre cose che accaddero durante il tour
italiano del 1982, fra le quali le moltissime zanzare che si ritrovò sul palco
a Milano ("perché un concerto in un parco?", si domandava infuriato).
A quel tour è ispirato il retro della copertina del suo disco dell'anno dopo,
il 1983, “The Man From Utopia”. Nell'immagine della cover c'è Zappa che
allontana le zanzare con una paletta.
C'è tutta la sintesi della sua parentesi
italiana. Insetti, spari e lacrimogeni. Zappa con quella paletta riuscirà a
scacciare le zanzare. Ma non il pessimo ricordo della notte di Palermo.
Un docu che consiglio, che permette di raccogliere un tassello
della vita di Zappa, tra musica e famiglia, tra personaggio pubblico e sfera
privata.
A Partinico, successivamente, i legami famigliari si sono
riannodati e per chi si trovasse a passare da quelle parti c’è ora una via a
ricordo del grande Frank Zappa.
“Veri fanatici di R & B, cantano e suonano come ci si
aspetterebbe da un gruppo di neri americani. Invece sono ragazzi bianchi, così
carichi di sfrenata energia da far urlare i fan.”
Norman Jopling, Record Mirror
Il fine settimana del 13 e 14 aprile 1963fu decisivo per i Rolling Stones. Da un paio di mesi
suonavano ogni domenica sera al Crawdaddy Club, un locale ospitato all’interno
dello Station Hotel, alla periferia occidentale di Londra. In breve tempo il
loro pubblico era passato da 30 a 300 spettatori ansiosi di ascoltare quei
giovani concittadini così bravi a suonare rhythm & blues. Tutto era
cominciato con la pubblicazione di un articolo, il primo in assoluto dedicato
ai Rolling Stones, sul Richmond And Twickenham Tmes: “Il R & B guadagna seguito di settimana in settimana e in tutto il
paese sta soppiantando il pop tradizionale”, aveva scritto Barry May. “Il suono corposo e intenso che si diffonde
la domenica sera dal palco dell’hotel comunica a tutti i presenti un
irresistibile desiderio di muoversi.” May riconosceva agli Stones anche una
notevole efficacia visiva, in particolare per i “capelli spazzolati in avanti
come quelli del gruppo pop dei Beatles”.
Secondo il giornalista, il Crawdaddy era una stanza buia e
affollata di gente “vestita in modo buffo”.
Il 14 aprile quattro giovanotti dall’aspetto doverosamente anticonvenzionale
s’immersero in quel buio. Erano i Beatles, venuti a dare un’occhiata alla concorrenza.
Ad accoglierli all’ingresso c’era Pat
Andrews, la fidanzata di Brian Jones,
che spiega: “Non si trattava di una
visita a sorpresa.”
Il manager dei Rolling Stones, Giorgio Gomelsky, aveva preso accordi qualche ora prima nella poco
lontana Twickenham, dove i Beatles erano impegnati sul set. “Brian mi chiese se potevo sistemarli in un
posto da dove si vedesse qualcosa”, aggiunge Pat. “Fu uno dei momenti della mia vita in cui ebbi più paura. Ricordo di
aver visto un berretto di pelle apparire davanti alla porta e di aver capito
che era Ringo. Erano tutti vestiti di pelle nera: li sistemai in un punto un po' appartato.”
Dal palco il bassista Bill
Wyman osservò la scena e pensò: “Merda,
sono i Beatles”. In realtà non aveva motivo di preoccuparsi. “Era una vera e propria festa”, avrebbe
raccontato tempo dopo George Harrison.
“Il pubblico urlava e saltava sui tavoli.
Era un ballo che nessuno aveva mai visto prima e che ben presto avremmo tutti
imparato a chiamare “shake”. Il ritmo degli Stones era così potente da far
tremare le pareti e sembrava ti attraversasse dentro la testa. Avevano un suono
pazzesco”.
Mark Paytress (“Io c’ero”).
SET LIST
Ain't That
Loving You Baby?
Bright
Lights, Big City (Jimmy Reed cover) Close Together
Soon
Forgotten
Shame Shame
Shame (Jimmy Reed cover) I'm Talking About You (Chuck Berry cover) Memphis,
Tennessee (Chuck Berry cover) I Just Want To Make Love To You (Muddy Waters
cover) I Want You to Know
I'm Bad Like
Jesse James (John Lee Hooker cover) Little Egypt (The Coasters cover) I'm All
Right
Prosegue la collaborazione stretta tra Stefano Giacconee
gli Airportman e questa volta produce la
testimonianza di uno spettacolo teatrale performato il 21 gennaio 2023
al Teatro Magda Olivero di Saluzzo.
Non solo musica quindi, ma un evento che ha visto sul palco
differenti attori, i cui nomi sono indicati nell'immagine a seguire.
Il titolo che Stefano Giaccone e Giovanni Risso (Airportman)
hanno scelto per denominare il CD è “Una chiara presenza”,
album all’interno del quale troviamo quanto accaduto oltre un anno fa,
suddiviso in due atti, e la sottolineatura “Costumi ed oggettistica forniti
da…” porta a pensare che gli aspetti sonori - gli unici che ci sono
concessi - siano solo una parte dei desideri propositivi e creativi degli
autori, e che solo chi era presente abbia potuto vivere in toto una esperienza
unica.
Sintetizzo un po’ di storia dei “titolari del progetto”
utilizzando note ufficiali.
Stefano Giaccone è considerato uno dei più rilevanti
musicisti della scena indipendente italiana, con una storia artistica affollata
di eventi ed esperienze sia come solista sia in gruppo. Nasce nel 1959 a Los Angeles; nel 1966 si
trasferisce in Italia, a Torino; nel 1982 fonda con altri musicisti (tra cui la
cantante Lalli) il progetto FRANTI e dal 1995 aggiunge alla musica una sua
personale ricerca nel mondo della Voce Teatrale. Dal 1998 al 2009 vive in
Galles (UK). Poi in Sardegna dove dirige il Progetto Nostos, quindi in
provincia di Cuneo dove produce e rappresenta lo spettacolo “MODERN” con il
gruppo Airportman. Quindi ancora Torino dove produce altri spettacoli, tra cui
“Vincenzina Franti” e “Occhio folle, occhio lucido”.
Airportman nasce dalle ceneri di un gruppo che si chiamava
“ratarè”, una band con una voce femminile, che realizzò in autoproduzione
almeno 5 dischi, con canzoni vere e proprie. Dopo quell’esperienza, Giovanni
Risso e Marco Lamberti presero coscienza che la dimensione canzone propriamente
detta non riusciva più a rappresentare al meglio quello che volevano dire nei
testi, e iniziarono a scrivere le liriche ed a cucire attorno una musica che li
avvolgesse e li rappresentasse, senza per forza cantarli o semplicemente
enunciarli. Nacque così il progetto Airportman e la formula è rimasta per lo
più immutata, salvo cercare direzioni musicali nuove che comunque hanno la
caratteristica di essere una sorta di colonna sonora alla parte letteraria.
Torniamo all'attualità, utilizzando e sintetizzando la
preziosa didascalia inviatami da Giaccone, senza la quale sarebbe stato difficile
entrare nel cuore del nuovo lavoro.
Partiamo dal fantomatico pseudonimo “Tony Buddenbrook”,
dietro al quale si nasconde Giaccone, appellativo catturato dal romanzo di
Thomas Mann, il cui titolo completo era “I Buddenbrook, decadenza di una
famiglia”. Riprenderemo dopo il concetto.
La seconda parte dello spettacolo è dedicata a “Le stesse
cose ritornano”, album di Giaccone/Buddenbrook del 1998, in cui veniva utilizzata
una citazione dal romanzo “L’uomo
senza qualità”, di Robert Musil, il cui senso profondo era l’invito a non
chiedersi mai il motivo delle azioni dei nostri antenati, accettando in modo totale
le loro condizionanti - per noi - scelte
del momento, facendo riflettere sul fatto che, al di là della volontà di ogni
singolo essere umano, i percorsi della vita possano prendere pieghe inaspettate,
non cercate e alla fine, forse, insoddisfacenti.
Dalle note biografiche su scritte si riesce solo ad
immaginare il girovagare dell’autore, una sorta di avventura permanente che
riporta alla vicenda letteraria di Tony Buddenbrook, personaggio femminile e
una delle protagoniste del romanzo di Mann, unica superstite di una famiglia
borghese spazzata via dal moderno che avanzava nel Nord Europa alla fine dell’Ottocento.
Ma qual era la famiglia di Giaccone nel 1996, quando, attorno
ai 40 anni, iniziò a scrivere quelle canzoni?
La logica di Musil, captata in quegli anni, è ancora un aiuto
e, più che andare alla ricerca di improbabili risposte, è forse meglio
accettare la logica della casualità degli eventi, realizzando idealmente e
rigorosamente quali siano stati i risultati, giorno dopo giorno, anno dopo anno,
sperando che quanto accaduto possa essere d’aiuto a chi, per mero elemento
anagrafico, necesiti di linee guida.
Come non essere d’accordo!
La lettura delle indicazioni preventive mi ha condizionato
nell’ascolto, perché il pensiero di Giaccone, appena sintetizzato, è quello di
qualsiasi anima pensante giunta alla piena maturità. Sono eventi/concetti che rendono
saggi chi li ha vissuti, a volte "pericolosi" per chi gira al contorno, certo è
che spesso sono portatori di alcuni rimpianti, di alcuni rimorsi che spingono
alla riflessione continua.
Tutto questo percorso di vita arriva all’ascoltatore -
attento - di “La chiara presenza”, una rappresentazione artistica che, pensando
al passato, sottolinea tutti i passaggi dell’evoluzione personale, facendo
riferimento a elementi storici ma lasciando il profumo di concetti senza tempo,
come l’amicizia ad esempio, quel tacito accordo che nasce tra persone sensibili
e virtuose, che si materializza e si percepisce nel viaggio che Stefano
Giaccone e gli Airportman ci presentano sul palco del Teatro di Saluzzo.
Non ho trovato nulla di proponibile in video/audio e quindi
fornisco un sample estrapolato dall’album originale “Le stesse cose ritornano”.
Il Concerto
per Linda è stato un tributo benefico nel nome di Linda McCartney, moglie di Paul McCartney, e andò
in scena alla Royal Albert Hall di Londra il 10 aprile 1999.
Linda
McCartney morì dopo una lunga battaglia contro il cancro quasi un anno prima,
quando aveva 56 anni. Linda e Paul sono stati sposati per 29 anni.
L'evento fu organizzato
da due delle loro amiche, Chrissie Hynde e Carla Lane, ed i proventi
furono destinati a varie associazioni di beneficenza per i diritti degli
animali. Hynde e Linda avevano lavorato insieme sostenendo vari gruppi per i
diritti degli animali, tra cui PETA.
Per condurre fu scelto il comico Eddie Izzard.
I biglietti
per lo spettacolo, con 5.000 persone presenti, andarono esauriti entro un'ora
dalla messa in vendita.
Presenze
Oltre alla
performance non annunciata di Paul McCartney, lo spettacolo vide una dozzina di
artisti cantare le proprie versioni del materiale dei Beatles. Tra
gli ospiti c'erano George Michael, The Pretenders (Chrissie Hynde fu una delle organizzatrici), Elvis Costello, Tom Jones,
Sinead O'Connor, Des'ree, Heather Small, il chitarrista Johnny Marr, Neil Finn,
Marianne Faithfull e Ladysmith Black Mambazo.
La Faithfull,
che voleva apparire, disse nell'occasione: "Non conoscevo bene Linda, ma ha reso il
mio amico molto felice, e questa è la cosa principale".
McCartney non
avrebbe dovuto esibirsi, poiché non aveva più fatto spettacoli da quando sua moglie
era mancata. Tuttavia, partecipò all'evento con i suoi quattro figli.
Dopo
essere salito sul palco per ringraziare il pubblico, su sollecitazione di
Chrissie Hynde, cantò una delle sue canzoni preferite del 1950, "Lonesome
Town" di Ricky Nelson. Nell’occasione fu supportato dai membri dei
Pretenders, insieme a Costello. La canzone è stata la prima registrata da Paul
dopo la morte di Linda.
Proseguì con
il suo successo del 1963, "All My Loving", originariamente
eseguito dai Beatles. La maggior parte degli artisti della serata si unì a lui
sul palco per creare il coro. Costello disse che per questo particolare evento,
"c'era qualcosa di incredibilmente toccante" nel testo di
apertura della canzone.
Dopo quelle
canzoni, Hynde si "precipitò" su McCartney per un abbraccio emozionato. Tutti poi
si unirono per la canzone di chiusura, "Let It Be".
Il 10 aprile del 1970 Paul McCartney abbandonava i Beatles
Alla domanda specifica di un
giornalista, focalizzata sulle motivazioni di tale decisione PaulMcCartney rispondeva: “Il mio
allontanamento è dovuto a divergenze personali ed economiche, ma soprattutto al
fatto che sto meglio con la mia famiglia. Se tutto questo sarà temporaneo o
permanente, beh, questo ancora non lo so, ma non ci sarà più motivo per
collaborare con Lennon per la scrittura di nuove canzoni né di suonare dal vivo
con i Beatles”.
Al contempo Paul McCartney presentava
il suo primo lavoro solista (l’album "McCartney", 1970) e di fatto
segnava la fine di un’epoca.
Il Daily Mirror pubblicò a caratteri
cubitali
“PAUL IS QUITTING THE BEATLES”
Era il 10 aprile del 1970, e
terminava ufficialmente l’avventura della band più popolare ed influente di
sempre.
La notizia fece in un lampo il giro
del pianeta, con l’immediata consapevolezza che stava per scomparire il
principale punto di riferimento musicale e culturale della Beat Generation, ed
era in atto lo scemare dei favolosi anni ‘60.
I quattro baronetti proseguirono le
loro importanti carriere musicali, ma per ciascuno di loro non fu mai più come
prima… prima di quel 10 aprile 1970.
Un esempio sintetico dell’immediato
proseguimento dei loro perocorsi: a metà aprile usciva “McCartney”, primo album
solista del bassista ex Beatle. L’8 maggio “Let It Be”, un 33 giri a tutti gli
effetti postumo, a settembre “A Sentimental Journey” di Ringo Starr, a novembre
il triplo “All Things Must Pass” di George Harrison ed a dicembre “Plastic Ono Band” di John Lennon.
Tanti gli interrogativi legati ai
motivi della separazione, e molte pagine sono state scritte a tal proposito.
Non è questo l’occasione utile per un ulteriore approfondimento ma è bene
sottolineare come esista una grande sperequazione tra la modesta durata
dell’avventura dei Beatles - circa otto anni - e l’enorme e fondamentale
contributo musicale e culturale regalato alla storia.
Preciso che i Beatles si sciolsero ufficialmente
e legalmente il 31 dicembre 1970, quando McCartney intentò una causa tendente a
porre tutti gli affari del gruppo nelle mani di un curatore fallimentare.
Di seguito la comunicazione data al
telegiornale del 10 aprile 1070 sul Secondo Canale RAI:
Quando il brano “Stay”
prese il volo per opera di Jackson Browneera il 1977, e la mia intransigenza musicale
dell’epoca, legata all’immaturità tipica dei ventenni, non poteva certo
permettermi di apprezzare una “roba del genere”, corta, melodica,
sdolcinata…
Ora che sono diventato antico, e scevro da certi pregiudizi - o forse
per il solo fatto che sono al corrente di quale sia “la musica che gira intorno”-
mi accorgo che tanti brani del passato su cui avevo sorvolato mi appaiono oggi
magnifici. Come accade in questo caso.
“Stay” nasce molto prima della proposta di Browne, e più
precisamente nel 1960, quando viene portata al successo da un gruppo vocale di
colore, i The Zodiac, guidato da Maurice
Williams.
Mettendo a confronto i due modelli espressivi si catturano
ovvie differenze, legate soprattutto ad epoche differenti, ma analizzando il
testo originale - molto semplice nel suo messaggio - e mettendolo a confronto con
quello riammodernato, emergono obiettivi molto differenti che vado a sottolineare.
Partiamo dalle origini che riportano a fatti del 1953, quando
il già citato Williams, allora quindicenne, chiede con ogni mezzo alla sua
fidanzatina del momento di non tornare a casa presto alla sera, secondo le rigidi disposizioni paterne, e quindi il testo si trasforma in una preghiera/richiesta
che rimarrà disattesa. Ma nasce una potenziale canzone.
Dopo qualche anno, il giovane Maurice decide di registrare
quel brano, e questa volta le cose andranno diversamente perché “Stay”
raggiunge in poco tempo la vetta della American Record Charts: siamo nel 1960 e
quella prima versione è ancora ad oggi la canzone più breve di tutti i tempi ad arrivare alla vetta di quella classifica.
La propongo a seguire e invito a porre attenzione su uno dei
quattro membri del gruppo, il cui falsetto caratterizzante appare inadeguato alla sua corporatura possente. Come vedremo accadrà qualcosa di inaspettato anche
nella proposta di J.B.
Arriviamo alla versione di Browne, cantautore americano che non
ha bisogno di presentazioni. “Stay” viene utilizzata per concludere l’album
live “Running On Empty“.
Il brano viene completamente riadattato e manipolato, e
diventa una ballad da brividi. Ma non è una banale coverizzazione, tanto che vengono
apportate variazioni significative al testo e la nuova sintesi avrà come logica
conseguenza la chiusura di tutte le esibizioni dal vivo di Browne e della sua
band.
La richiesta di “restare” non è più rivolta ad una donna ma
al pubblico a cui viene chiesto di rimanere ancora un attimo per ascoltare un’ultima
canzone.
Nella versione che presento, che è quella che preferisco, la
genialità di J.B. è quella di inserire due voci oltre la sua, che di per sé è già grandiosa:
la prima è quella incredibile di Rosemary Butler...
... e la seconda è frutto
di un colpo di genio, il falsetto che inizialmente fa pensare ad un’ulteriore
voce femminile e che invece è da attribuire a David Perry Lindley,
compagno inseparabile di Jackson Browne, nonché polistrumentista illuminato.
Auguro ai lettori di
provare le mie stesse emozioni ascoltando/guardando il video a seguire…
Ma torniamo per un attimo al punto di partenza, giacché non
esistono molte notizie in italiano di Williams e del suo gruppo.
Maurice Williams nasce il 26 aprile 1938 a Lancaster, nel South Carolina, luogo
testimone del proliferare del rhythm and blues alla fine degli anni Cinquanta.
Da subito inizia a cantare nel coro della sua chiesa e, una
volta diventato studente alla Barr High School, forma una band con tre suoi
compagni di scuola (Charles Thomas, Willie Bennet e Henry Gasten). Dopo essersi
dati il nome di Charms i quattro si trasferiscono a Nashville dove cambiano
nome, prima in Gladiolas e poi in Excellos. Proprio a Nashville pubblicano i
loro primi dischi. Nel 1957 Williams ottiene un’inattesa popolarità come autore
grazie al successo della sua canzone “Little darlin’”, che scala le classifiche
nella versione dei Diamonds.
Sull’onda dell’improvvisa notorietà Maurice e la sua band nel
1959 cambiano ancora nome diventando Maurice Williams & The Zodiacs. Nel
1960 arrivano al primo posto della classifica statunitense dei dischi più
venduti con “Stay. Il successo della canzone resta però un evento isolato per
una band che non riesce a ripetersi con i brani successivi.
Tensioni interne e avvicendamenti, uniti allo scarso
successo, finiscono per chiudere la storia della band. La sigla non muore ma
viene utilizzata da Maurice Williams anche negli anni successivi in esperienze
sostanzialmente solistiche.
Ma “Stay”… rimarrà per sempre!
Per completezza di informazione il brano “Stay” fu
proposto nel 1964 dai The Hollies nell’album “Stay with The Hollies” del
1964...
... e noi in Italia abbiamo avuto l’immancabile cover, as usual per l’epoca,
dell’Equipe 84, con il “tocco sapiente” di Mogol, e prese il titolo di “Resta”.
Doveva essere il lato A del primo disco con la nuova casa
discografica alla quale il gruppo di Maurizio Vandelli era finalmente
approdato, la Ricordi, prima etichetta italiana dell'epoca ma diventò il lato B
della più conosciuta “Ho in mente te”.
La versione di J.B. è in ogni caso l’unica con il testo
concettualmente modificato e dedicato ai concerti e non a una figura femminile.