lunedì 16 marzo 2015

Stefano Barotti-Pensieri Verticali


Dopo un lungo periodo, otto anni, Stefano Barotti si ripresenta sul mercato discografico: sarà lui stesso, nel corso dell’interessante intervista a seguire, a spiegarci il perché del vuoto temporale significativo.
L’album di fresca uscita si intitola Pensieri Verticali, e anche su questo concetto Barotti ci illuminerà.
Ho afferrato la sua musica con netto ritardo, nell’occasione del precedente Gli Ospiti, e trovo che sia difficile restare indifferenti alla sua proposta.
Non amo incondizionatamente il mondo etichettato come cantautorale, soprattutto quello antico, per effetto di un’eccessiva autoreferenzialità che sa di snob da parte di crede di proporre una musica più nobile di altre, toccata dall’impalpabile sfera dell’intellettualità.
Stefano Barotti mi suscita sentimenti positivi, e nel leggere le parole che accompagnano il nuovo disco -non solo le liriche, ma anche i commenti dell’autore- mi è capitato di immedesimarmi, di rubare suoi concetti che mi chiariscono ciò che a volte non si riesce a spiegare, anche se è qualcosa che si ha dentro; e così, quando afferma: “A volte non basta voltare pagina, ma bisogna bruciare il libro”, introducendo il suo brano Nerone, una luce si accende e mi chiarisce un punto nascosto tra i meandri della mente: in undici parole -la sintesi perfetta- una grossa verità. E questo significa captare la lunghezza d'onda dell'artista.
Il contenitore che Stefano propone è ricco, ma la musica in senso lato, contrariamente a quanto qualcuno voglia farci credere, non ha niente di razionale, e se anche esistesse il testo perfetto, il ritmo fantastico e la sonorità ideale, tutto questo potrebbe anche lasciarci indifferenti, facendoci preferire magari... una canzone in russo, di cui normalmente non possiamo apprezzare il significato. Questo accadeva un tempo -ma anche oggi- con la nostra cara musica anglofona. Tutto ciò per dire che, la perfezione ricercata dall’autore, potrebbe non condurre allo stesso risultato se non esistesse una particolarità vocale che colpisce e non ti lascia più. Il mondo è pieno di belle voci, potenti e dalla grande estensione, ma la caratterizzazione è atra cosa, e la timbrica di Barotti è unica.
Detto questo, sottolineatura doverosa, arriviamo all’album.
Dodici brani, molto vari, realizzati con il contributo significativo di musicisti straordinari -cito Paolo Bonfanti, Max De Bernardi, Kreg Viesselman e Jono Manson- che risultano decisivi per la colorazione di ciò che appare minimalista rispetto al passato, situazione che è frutto dell’incontro e della successiva sintonia tra Barotti e il produttore Raffaele Abbate; l'immagine che ne consegue è quella di un artista più “nudo” e quindi più vero rispetto alle possibili protezioni che tecnologia e ridondanza musicale possono fornire.
La verticalità di cui si parla è la spinta all’azione, alla ricerca di qualcosa che forse non è ben definito nei contorni, ma che è idealmente stimolante, e alla fine, almeno la coscienza, risulterà a posto. In un momento sociale in cui si è spesso spinti verso l’accidiosità, la poesia e l’esortazione al movimento di Stefano Barotti diventano una linea guida da seguire, e il messaggio del cantautore -ritorno al concetto iniziale- diventa in questo caso prezioso, essendo traduzione della quotidianità attraverso la normalità espressiva.
Storie di tutti i giorni, proposte come ballad -con gli amori mai sopiti... il reggae, Nick Drake, Lennon, Dylan-, vissute e mostrate in prima persona, con in evidenza lo strumento principale, la chitarra, magari usata con accordature aperte.
Ho apprezzato molto il concetto di “amore per ogni stagione”, simboleggiato da quattro brani -Povero è l’amore, Rose d’ottobre, Ogni cento parole e Girasole- che disegnano in modo originale e appassionato ciò che tutti noi viviamo, anche se il saperlo esprimere non è da tutti. Amori concreti, delusi, riusciti, carnali, spirituali… unilaterali, momenti unici che rappresentano ciò che più si avvicina al concetto di felicità e al suo opposto, e Barotti ha la capacità di farli sentire nostri, anche solo dopo il primo ascolto.

Il massimo del mio gradimento per “Pensieri Verticali”, vivamente consigliato.


L’INTERVISTA

L’album con cui mi sono avvicinato alla tua musica, ”Gli Ospiti”, risale al 2007: che significato si può dare al grande gap temporale che porta al nuovo disco, “Pensieri Verticali”?

Avevo deciso di cambiare rotta, prendermi tempo e registrare il nuovo disco vicino casa. Ho scelto Leivi, Raffaele Abbate e la Orange Homerecords dopo diverse pre produzioni, facendo un pò di esperimenti. So che otto anni sono tanti tra un disco e l’altro, ma è un tempo che mi è stato necessario per capire al meglio i tasselli da mettere insieme. Musicisti, produzione, canzoni. Fare un disco col solito vestito non aveva senso. Non che avessi bisogno di stupire con effetti speciali, ma volevo che il disco fosse uno specchio fedele di quello che sono e voglio suonare e raccontare in questo momento della mia vita. 

Come sintetizzeresti la tua storia musicale?

Ho cominciato a scrivere canzoni a 17 anni e adesso ne ho 42. La musica mi è stata sempre accanto, e ancora mi innamoro dei momenti in cui sento una canzone nuova arrivare. Ho iniziato da Bob Marley, credo che ascoltare lui mi abbia fatto innamorare della musica e avvicinato alla chitarra. Oggi sono lo stesso “compositore di canzoni” di molti anni fa, con lo stesso bisogno di comunicare e la stessa voglia di raccontare delle storie, ma con un bagaglio molto più grande che mi permette di essere sicuro di me su alcune cose, e potermi mettere in discussione su altre lavorando con altre teste. Diciamo che un tempo c’era Stefano Barotti e a seguire le canzoni, oggi siamo definitivamente insieme e non siamo più gelosi l’uno dell’altra.

Anche il ruolo di cantautore conduce a stereotipi e luoghi comuni: in cosa ti senti differente rispetto allo standard?

In molti trovano limitante essere definiti cantautori. A me non crea grossi problemi. Il punto credo sia come ci si sente. A volte sono un cantautore, altre volte un musicista, chitarrista, altre ancora un cantante o un arrangiatore. Dipende di cosa ha più bisogno una canzone. Forse per questo mi sento differente. La vecchia scuola mi ha insegnato molto, ma per diversi motivi ormai la sento distante. Non credo nella “sacralità” dei versi dei cantautori, compresi i miei.

Esiste qualche figura, o qualche accadimento, che consideri come importante svolta professionale?

Ce ne sono molti, tantissimi. A partire dalle mie esperienze americane con Jono Manson per i miei primi due dischi. Ma un’altro ricordo forte che ho e che ha cambiato la mia intenzione artistica è stato l’incontro con Ennio Melis, storico direttore artistico della RCA nell’ormai lontano 2000. Quando gli portavo le mie canzoni avevo l’impressione che la grande nave della musica d’autore fosse in pieno viaggio. Persone come lui erano fondamentali per chi aveva qualcosa da scrivere e cantare. E non parlo di possibilità di carriera e successo. Parlo di intenzione artistica e attenzione per il singolo. L’incontro con lui ha cambiato il mio approccio alle canzoni.

Personalmente credo che la tipicità della tua voce sia elemento caratterizzante, un marchio di fabbrica in mezzo a tanti… “cloni che clonano”: ti senti più vocalist, strumentista, compositore… o è impossibile scindere le cose?

Come dicevo prima mi sento tutte le cose che citi. Ho sempre avuto la fortuna di essere curioso. Questo mi ha portato a crescere e mi ha insegnato a muovermi a polipo nelle mie canzoni. Molti anni fa i testi erano la cosa primaria. Col tempo una bella frase, una bella rima non mi bastavano più. E così ho cominciato a sperimentare esponendo le mie canzoni a qualsiasi cosa potesse darmi “novità”. Nuovi stimoli sono arrivati dalle accordature aperte per esempio. Suonare altri strumenti a corda come Banjo o chitarre portoghesi. Ho approfondito il finger picking stregato da Nick Drake. Riguardo il cantare sono cambiate molte cose. Ma sono all’antica. Cantare di “pancia” credo sia l’unico modo per arrivare alla gente. Il fatto che la mia voce oggi sia più interessante e a fuoco è dettato in gran parte dai miei 40 anni suonati.

Sefano… che cos’è un pensiero verticale?

Il pensiero verticale è il pensiero non seduto. Il pensiero dettato dalla sana curiosità, dalla voglia di bellezza. L’intenzione di spingersi un po’ più in alto in un periodo storico dove invece è tutto piatto e tende all’orizzontale.

Nell’album racconti le tue storie, che risultano accompagnate da una particolare ricerca musicale, dove il blues e il rock convivono con la pacatezza cantautorale: è il tuo DNA che ti ha portato a collaborare con Jono Manson e Paolo Bonfanti, tanto per citarne un paio?

Due grandi musicisti/artisti. Ho imparato molto dall’esperienza con Jono, e avere Paolo nelle mie canzoni è sempre un piacere. Il blues e il rock li vivo più come intenzione che come sonorità, collaborare con loro chiude un po’ il cerchio. Mi danno “il suono”, quello che serve alla mia vena. 

Mi ha colpito l’accoppiamento che hai realizzato tra storie d’amore e stagioni: quanto può influenzare l’atmosfera, piuttosto che il fatto oggettivo, nella creazione di una canzone?

Credo sia fondamentale. L’atmosfera è tutto. Il fatto oggettivo a volte addirittura non accade, ma quel che si respira, si intuisce, quello che gli occhi scoprono prima che accada e soprattutto la fantasia, il sogno, fanno accadere tutto e di più dentro i versi.

Cosa accade nei tuoi spettacoli live?

Sto promuovendo il disco con i miei due amici Vladimiro Carboni/batteria e Luca Silvestri/basso. I concerti stanno andando molto bene. Sul palco c’è sempre una buona sensazione. E con loro ho raggiunto una bella “pasta” di suono. Non c’è quasi mai nulla di stabilito, a parte un minimo di scaletta. A volte mi piace raccontare aneddoti tra un brano e l’altro, ma è tutto molto spontaneo, non preparo nulla. Molto dipende dal pubblico. Se si lascia corteggiare o meno. Suono e canto su un palco da anni, per un bisogno estremo di comunicazione e “scambio” emozionale con le persone. Questo è quello che cerco di fare al meglio ogni volta cantando le mie canzoni. 

Cosa dobbiamo aspettarci dal prossimo Stefano Barotti?

Ci sono molte cose in cantiere. Collaborazioni, registrazioni, live. Ho ripreso a scrivere canzoni nuove. La priorità è non far passare altri otto anni. Ma adesso mi godo “pensieri verticali”.


Track List
L’uomo armadillo
Blues del cuoco
La Ragazza
Vorrei essere
Povero è l’amore
Giudizio non ho
Rose di ottobre
A cena con Drake
Nerone
Ogni cento parole
L’arcobaleno rubato
Cuore danzante / Sulla pietra del pane sfidando il drago con la spada di San Giorgio
Girasole