mercoledì 18 settembre 2013

The Trick- “The Trick”, di Gianni Sapia



The Trick- “The Trick
di Gianni Sapia

È sempre bello sentir gridare una Gibson Les Paul. Sentirla lanciare la sua voce, che taglia in due l’aria, come un fulmine che squarcia il nero della notte. Sentire il profumo di rock che si porta appresso, profumo di colori intensi. Sentire la vita che vibra tra quelle sei corde. C’è gioia e bellezza in una Les Paul. Non c’è speranza, tutti i più grandi l’hanno avuta per le mani, l’hanno accarezzata coi loro polpastrelli sapienti, l’hanno stuzzicata coi loro plettri, tutti, proprio tutti e citarne uno sarebbe fare un torto agli altri. Ma lo farò ‘sto torto, che Dio mi perdoni, però, quando sogno Jimmy Page, perché lui io me lo sogno, non lo faccio mai senza che abbia appesa al collo e tra le mani la sua Gibson Les Paul. Sarebbe come Stanlio senza Olio, Cip senza Ciop, Ian Solo senza Millenium Falcon, Zagor senza Chico, Goemon senza katana. Binomi inscindibili. Non puoi pensare di fare rock, se non l’hai tenuta almeno una volta tra le mani. Vestita dalle tonalità del fuoco, con il suo corpo sinuoso da un lato e spigoloso dall’altro, i quattro potenziometri a portata di mano, lei ti incanta e ti strega, come lo sguardo di una donna resa bella dalla sua personalità. C’è rock che bolle in una Gibson Les Paul. Ecco perché quando li ho sentiti ho voluto vedere anche le foto e i video, perché ero sicuro che lì in mezzo ci fosse anche una Les Paul. E c’era. È un rock bello, marcato e stridente, urlato e cadenzato, come piace a me. Non gli manca niente, basso e batteria che pompano e sottolineano i vari passaggi, voce che lancia il suo acuto urlo di battaglia e poi lei, con i suoi assoli che ti strigliano la colonna vertebrale. A risvegliare l’epidermico brivido che l’hard rock mi procura, questa volta è la band napoletana The Trick, composta da Tony Napolano (voce-chitarra), Francesco Marra (chitarra-noise), Luca Furiano (chitarra), Michele Lattero (basso) e Pasquale di Maria (batteria). Sono bravi. Che poi cosa vuol dire “sono bravi”? Che hanno tecnica? Sono intonati? Suonano e cantano bene? Naa, sono bravi non vuol dire un bel niente. 



Sono belli è l’espressione più giusta. Sono anche bravi certo, ma per fare musica, quella fatta di viscere e di anima, bisogna soprattutto essere belli, bisogna essere, per rimanere ai piedi del Vesuvio, anema ‘e core. La bellezza dell’arte non prescinde mai dalla bellezza spirituale ed intellettuale di chi la porta alla luce. Né bellezza esteriore né interiore, ma bellezza nella sua integrità. Un’astrazione che abbiamo dentro ma che pochi riescono ad estrapolare e regalare al mondo sotto forma d’arte, che sia pittura, scultura, recitazione, fotografia, che sia musica. L’occhio folle del genio mette a fuoco la bellezza, mentre gli altri si perdono nella nebbia della normalità. Già con Don’t Believe In Me la nebbia si dirada e vedo e sento la bellezza. La sento nei colpi sul charleston aperto che apre la strada agli altri, la vedo nel riff di chitarra, che non lascia spazio alla banalità e proietta la sua vena rock sullo schermo bianco delle mie sensazioni, lo vedo e lo sento nelle arterie che si gonfiano e si sgonfiano sollecitate dal canto viscerale, lo vedo e lo sento negli assoli di chitarra che si incastrano come ingranaggi precisi ed essenziali nella macchina musicale, per poi ergersi a protagonisti assoluti nel tempo giusto, senza pietà per l’emozione, che non trova pace, costretta dall’adrenalinica musica ad una veglia perenne. E la veglia emozionale continua con la camaleontica On The Mouth. Se l’inizio fa pensare a qualcosa di ancor più tirato, quasi metal, poi tutto muta repentinamente e si passa da un passaggio funky con coda melodica al South Rock’n’Roll, confermato dall’assolo in stile Lynyrd Skynyrd. Un misto che non annoia mai, d’altra parte le razze più belle sono le razze miste. C’è una cosa che contraddistingue le band speciali dalle band normali, la peculiarità del suono. Un pezzo dei Rolling Stones o dei Led Zeppelin, si riconosce anche senza conoscerlo, perché “quel suono lì” è il loro suono e i The Trick sono su quella strada, hanno “quel suono lì”. Il sospetto, che diventa in un attimo certezza, ce l’ho quando ascolto Thus Spoke Zarathustra, perché la mia primitiva mente, che formula pensieri prima di pensarli, tira fuori un “ eh sì! Sono proprio loro” e me lo sbatte in faccia già sulle prime note. È un ritmo caldo e placido increspato dall’ossessività della stessa nota acuta di chitarra, che dà l’idea della vita, come lo schermo di un monitor cardiaco. Poi ci sono le aritmie e quello che era bello nella sua regolarità, diventa bello per la sua singolarità. Un pezzo che mi piace un bel po’. E poi c’è Non Capire e si continua a godere. Si gode sempre ascoltando i The Trick, ma qui c’è il tocco di classe, c’è Lino Vairetti, che mette la sua esperienza maturata con gli Osanna, band storica della musica italiana, e la sua genialità, al servizio del gruppo, in tutto l’album e qui in particolare, con la sua voce e come coautore del testo. Mi accontenterei già della chitarra iniziale, che apre il pezzo in maniera sensuale. È una chitarra erotica che apre la strada a un brano che mi fa venir voglia di citare una frase che ho letto da qualche parte: esistono solo due tipi di musica, rock and roll. La mia esperienza con i The Trick per ora si ferma qui, ma è un’esperienza che voglio rinnovare ed ampliare. Questi cinque ragazzi napoletani, grazie anche alla collaborazione di un grande come Lino Vairetti,  dimostrano ancora una volta, se mai ce ne fosse stato bisogno, che il rock non avvizzisce mai. Le radici del rock sono profonde e trovano sempre acqua con cui dissetare l’inesauribile sete che lo accompagna. Sete di bellezza. La bellezza che tutti noi abbiamo dentro, ma che troppo in fretta dimentichiamo. Bellezza che l’arte ci aiuta a ricordare, come la musica dei The Trick, che sono bravi, ma soprattutto sono belli.