giovedì 1 agosto 2013

Lamanaïf-L’Uomo Infinito, di Gianni Sapia


“Nascondi ciò che sono | E aiutami a trovare la maschera più adatta | Alle mie intenzioni” e aprire con Shakespeare non è un vezzo, né un lazzo, ma causa ed effetto di ascolto e visione di un’opera, che si muove nel tempo e che riempie lo spazio, celando risposte, come una maschera cela le espressioni del viso. È la drammaturgia prestata alla musica, o viceversa. Anzi, donata, non prestata. Reciproco scambio di virus che contaminano, sfumandoli, i confini già labili delle emozioni artistiche. I dubbi, le ansie, le fondamenta di costruzioni oniriche scosse dall’inevitabile, le narcisistiche riflessioni di un uomo che cerca risposte e trova soltanto ulteriori domande. La musica è spugna e la poesia il liquido che assorbe e di cui s’impregna. È la musica è musica! Non un sottofondo, non un accompagnamento, ma musica con intestini, muscoli ed ossa, dai lineamenti marcati, con una propria distorta personalità, come i volti disegnati da Van Gogh. Si potrebbe parlare di progressive, metal, hard rock, ma perché non anche di ritmi tribali di ancestrali tribù oceaniche? A definire la musica si rischia sempre di fare una cazzata, soprattutto se a definirla è uno come me, appassionato e non critico, alunno perpetuo, che della musica raccoglie l’emozione. La musica è viva e come ogni essere vivente, ogni musica ha la sua personalità. O non ce l’ha e si perde nella banalità della normalità. Ma non questa volta. Non c’è niente di banale né di impersonale ne L’Uomo Infinito dei Lamanaïf. Dodici brani che sembrano altrettante sculture, plasmate dai suoni di Estéban Vidoz (voce), Matteo Florian (basso ed effetti), Simone Bianco (chitarra ed effetti) e Simone Sossai (batteria e percussioni), coadiuvati dagli interventi di Sebastiano Basso (didgeridoo) e Andrea Ghion (percussioni). Come in un labirinto disegnato dalla forza della chitarra e dall’ossessività ritmica, la voce si incammina ora dolce, ora isterica, acida e teatrale, ora ironica e poi melodica e poi incazzata, sulla strada tracciata da testi che raccontano dell’intimità dell’uomo, alla ricerca della giusta via per raggiungere qualcosa, ma senza sapere cosa. Il contraddittorio senso di un esistenza marcata da dubbi e da domande protese verso l’infinito. Un cammino che potrebbe apparire difficile e tortuoso, ma che la facilità dell’espressività musicale, figlia di tecnica e passione, con cui la band sciorina i dodici brani che compongono l’album, ne fanno un’opera fruibile a chiunque abbia voglia di qualcosa di più della rima amore e cuore e del TUMPA TUMPA protagonisti di tanta musica passata, presente e, temo, futura. C’è anche tanto lavoro in questo disco, oltre l’estro. La grafica è molto curata, dalla copertina al booklet fino ai caratteri usati, tutto dà l’dea di essere stato ben ponderato, agghindato con lo steso maniacale amore con cui una madre vestirebbe il figlio per la sua prima comunione. Ma non appena si appoggia il CD sul cassetto e questi si ritrae come una lingua su cui è stata appoggiata un ostia e la musica mobilita l’aria, allora è proprio lei, la musica, ad impadronirsi della scena, protagonista assoluta. 


L’Ipnotico Salto e il primo passo del cammino attraverso la foresta di versi e suoni potenti che i Lamanaïf ci andranno a presentare e senza soluzione di continuità ci spinge sotto la pioggia di Rane, il cui riff si attacca alla pelle e continua a rimbalzare tra le pareti della scatola cranica, sospinto da una ritmica incessante e il testo.. non parlerò dei testi, di nessun brano, non più di quanto abbia già fatto. È mia intima convinzione che la poesia non debba essere spiegata, ma vissuta, fatta propria e possa così risvegliare in ogni coscienza emozioni diverse, là dove esista la sensibilità di una coscienza. Ascoltate e lasciate che la piena di sensazioni rompa gli argini, allagando i campi della vostra intimità. Nella terza traccia, (In) Stabile, la chitarra rimbalza come una pallina magica sul parquet di basso e batteria, su cui la voce si muove agile come il Michael Jordan dei tempi migliori. La vena romantica che caratterizza l’apertura di Magnolia si trasforma ben presto in un urlo rabbioso che cerca “il senso del mio domani” e l’alternanza tra quiete e tempesta si protrae per tutta la durata del pezzo. Il surreale è il tratto che caratterizza L’Uomo Infinito, brano che dà il titolo all’album. Una canzone che echeggia negli universi mentali di chi ascolta. L’ossessività di H.E.N (Hic Et Nunc), che cambia pelle più volte durante il suo cammino, rende con efficacia la retorica ironia con cui si affronta la banalità del reale. Al giro di boa si arriva a Girotondo che si apre con un feedback cavalcato prima dal basso e poi dalla batteria, per diventare un pezzo variopinto e nervoso, melodico e inquieto, impreziosito dal cantato di Estéban Vidoz, qui in versione fuoriclasse che fa la differenza, senza voler far torto agli altri componenti della band, anche loro sempre un gradino più in su della normalità. E tutto ciò viene ampiamente confermato e ribadito in Puzzle, brano in cui le capacità corali dei Lamanaïf sono sottolineate dall’abilità dei musicisti di mettere la tecnica individuale al servizio della squadra. Insonne (Pavor Nocturnis) è un momento di tregua apparente, è il sogno che attraversa la mente durante il sonno-non-sonno, paludosa veglia del sonnambulismo umano. Con Un Amore Chirurgico la band si concede una digressione di pura teatralità, quasi a voler ribadire, se mai ce ne fosse bisogno, la contaminazione di generi artistici che li contraddistingue e apre le porte a L’Amami, penultimo brano del disco. Siamo verso la fine, ma non c’è tregua, i ragazzi non mollano. Se qualcuno si aspetta dei cali di tensioni sul finale, rimarrà deluso. Anzi. La loro forza è ancora ben viva, il fuoco più ardente, l’enfasi esplode e le onde del mare si infrangono potenti sulla scogliera finché un inquietante “stai ancora ascoltando”, bisbigliato sotto il temporale, mi immerge nel punkeggiante incipit di I/O, atto conclusivo. Ma non c’è stanchezza, né in chi suona, né in chi ascolta, c’è ancora fiato per un ultimo scatto. Le gambe rispondono bene all’ulteriore sollecitazione e quegli ultimi metri che mancano al traguardo vengono percorsi con impeto da I/O e poi la fine e la felicità che resta. Perché è felicità quella che resta, quando si trasforma l’astrazione del bello, nella realtà di musica e parole.