domenica 29 aprile 2012

Why Aye Men - tributo ai Dire Straits



Why Aye Men è una Tribute Band dei Dire Straits che nasce nella Val Bormida, nell’entroterra ligure.
Dura la vita di chi decide di riproporre l’esistente, anche se la strada appare con meno ostacoli rispetto a chi presenta brani propri, perché sembra che non ci sia più il tempo o la voglia per ascoltare e giudicare ciò che ancora non si conosce.
In fondo è solo questione di obiettivi che, a tavolino, si decidono preventivamente, e alla fine conterà il talento e la qualità della musica che si riuscirà a creare. Esistono casi in cui la cover band assume un’immagine propria e riesce ad eguagliare -a volte superare come gradimento- l’originale, che probabilmente non esiste più, e quindi resta questo un modo importante per mantenere in vita, in fase live, ciò che è ormai legato alla storia e alle registrazioni del passato.
Ci sono casi clamorosi, come i The Musical Box e i The Watch che interpretano- anche – i Genesis, o i Big One, capaci di realizzare un incredibile show dei Pink Floyd, superandoli come visibilità attraverso i filmati su youtube, e in molti casi alcuni dei protagonisti originali stringono reale amicizia con i loro prosecutori, dando loro una sorta di patente che li autorizza a continuare con grande entusiasmo.
Sono arrivato agli Why Aye Men  attraverso la conoscenza di Roberto Faccio, attuale batterista, ma anche valente tecnico del suono e, credo, polistrumentista. Ho scoperto cose numericamente interessanti sul loro seguito-cosa non facile da avere di questi tempi- e, incuriosito li ho ascoltati, anche se mi manca l’occasione live.
Niente da dire dal punto di vista tecnico… senza un know how elevato risulterebbe difficile proporre brani tutt’altro che semplici,  con la complicazione di una tecnica chitarristica inusuale, così come la timbrica unica, inventata da Mark Knopfler, e divenuta segno distintivo dell’intera produzione dei Dire Straits.
Brani rivisitati nei dettagli e ricerca della completa similitudine mi sembrano i cardini dei Why Aye Men,  e a giudicare da ciò che ho visto/sentito, si è raggiunto un buon amalgama, situazione che non si improvvisa, ma si ottiene col duro lavoro.
Per sapere qualcosa in più sulla loro filosofia musicale, sulla storia e sui programmi futuri, leggiamo il pensiero del chitarrista/cantante Luigi Pesce.
E alla prima occasione … ascoltiamo una loro performance live!

L’INTERVISTA

Come nasce l’idea di realizzare un tributo ai Dire Straits?

A livello embrionale l’idea saltò fuori a metà del 2008. Ci trovammo a suonare insieme io, Paolo (il tastierista) e Francesco (il chitarrista ritmico), proprio un paio di brani dei Dire Straits. Paolo fu il primo a lanciare l’idea: “Ma lo sai che li suoni bene i Dire Straits? Non ci starebbe male una band tributo...”, ma io decisi di “lasciare cadere la cosa” a causa dei troppi altri impegni. Nel gennaio 2009, durante una nottata in cui fui preda dei deliri della febbre da influenza, mi tornò alla mente questa “malsana” idea e decisi di approfondire l’argomento. Contattai quindi il “colpevole” di aver lanciato il sasso e formammo il primo nucleo del gruppo. Come chitarra ritmica decidemmo di contattare Francesco (che già conoscevamo) e per il ruolo di bassista decisi di contattare Franco, un altro amico dei “bei vecchi tempi andati”.  Non ci incontravamo da anni... ridiamo ancora adesso dei deliranti messaggi che gli lasciai nella segreteria telefonica!
Trovare un bravo batterista è stata un’impresa ardua ed ha richiesto il coinvolgimento di vari musicisti. Ora alla batteria è passato stabilmente Roberto, che prima ricopriva, da buon polistrumentista, svariati ruoli a seconda del brano.Per decisione unanime cominciammo a scegliere anche brani meno conosciuti ma, per qualche motivo, comunque importanti, sia dei Dire Straits che di Mark Knopfler come solista.

La line up attuale del gruppo è la seguente:

- Luigi Pesce - Lead Guitar & Voice
- Paolo Bertolissi - Keyboards, Sax and Chorus
- Francesco Pazzaglia - Rhythm Guitar and Chorus
- Franco Cavallo - Bass
- Roberto Faccio - Drums

Che tipo di percorso musicale avete alle spalle?

Siamo tutti piuttosto rodati e tutti, a parte Francesco che è il più giovane, abbiamo militato in vari gruppi della zona. Io sono passato dal blues/rock alla musica anni ’60, Paolo faceva parte di un gruppo prog rock che proponeva brani propri (ma ha anche suonato in varie orchestre e si diletta anche in serate di pianobar); Franco è passato dal blues allo swing; Roberto si è dedicato principalmente ai musical, passando con scioltezza dal canto a tutti gli strumenti che sa suonare; Francesco insegna chitarra a Savona, alla Music Project Park school.

Nella vostra riproposizione di brani musicali famosi, cercate la maggior fedeltà possibile rispetto all’originale o preferite dare un tocco personale?

Solitamente cerchiamo la maggior fedeltà possibile, ma capita di dover scendere a compromessi e riarrangiare certi brani, sempre nel rispetto della versione originale o delle varie versioni live. In pratica, se il brano è riproducibile in modo fedele, facciamo del nostro meglio per rendere il brano alla perfezione... chi ci ascolta deve chiudere gli occhi e immaginare i Dire Straits sul palco al posto nostro. Capita però che alcuni brani necessitino di più strumenti, per cui vengono riadattati alla nostra line up. Le nostre personalizzazioni riguardano principalmente la creazione di versioni particolari, prendendo spunto, ad esempio, dall’introduzione di una particolare versione live, il brano da una versione diversa e la chiusura da un’ulteriore versione. In ogni caso restiamo il più possibile fedeli alle varie versioni suonate dai Dire Straits, è una questione di serietà verso il pubblico, che pretende (giustamente) di ascoltare un live dei Dire Straits.

Ho notato che avete un buon seguito in Val Bormida e i vostri concerti sono numerosi. Che cosa significa per voi la performance live? Riuscite sempre a trovare la chiave giusta per entrare in sintonia con l’audience?

Ogni serata è un’esperienza a sé... difficile prevedere cosa succederà e come reagirà il pubblico. Ogni scaletta viene preparata in modo da andare incontro a quella che presumiamo sarà l’inclinazione musicale del pubblico del locale (o piazza) in cui andremo a suonare; cerchiamo di accontentare i fan più competenti (proponendo brani meno famosi ma, in certi casi, anche più interessanti) e le persone che conoscono solo le hit, come Sultans of Swing e Money for Nothing, ad esempio.
Sul palco cerchiamo di divertirci e di divertire chi ci ascolta... in modo serio e professionale però! Il rispetto verso il gestore e il pubblico porta sempre ad un esito positivo, che soddisfa un po’ tutti; riusciamo a convincere anche coloro che, inizialmente, magari erano più dubbiosi... del resto un tributo ai Dire Straits non si improvvisa, e molti temono di trovarsi di fronte ad una brutta copia. I complimenti a fine serata ci confermano che stiamo seguendo la strada giusta.
Facciamo del nostro meglio per proporre un live ad alto livello, migliorando continuamente la strumentazione e la resa dei brani. È un lavoro costante che, sul medio lungo periodo, ripaga sicuramente degli sforzi, anche economici, sostenuti.
Per citare il buon Mark: “siamo un gruppo di uomini sposati che fa un gran bel gioco di società”.

Spesso si polemizza sul ruolo delle “tribute band”, a volte in concorrenza con chi fa musica propria. Qual è il vostro pensiero a tal proposito?

Secondo noi la musica va distinta tra “ben suonata” e “mal suonata”, indifferentemente dal fatto che si tratti della riproduzione di un brano scritto da altri o da una propria creazione.
Meglio un gruppo fracassone e disordinato, ma che propone brani propri o un tributo ben fatto? Meglio un gruppo che esegue magistralmente brani propri o un tributo mal fatto?
Io mi fermerei ad ascoltare quelli che suonano meglio.
Creare un brano è uno sforzo notevole, ma si può scrivere musica che si adatti alle nostre esigenze e possibilità; per contro riprodurre fedelmente un brano esistente ci permette di saltare la fase creativa, ma aggiunge una notevole fase di studio del brano e delle sue particolarità, alle quali siamo noi che dobbiamo adeguarci. In pratica c’è un grosso lavoro comunque. Consideriamo anche il fatto che, quando suona un tributo, il pubblico è maggiormente esigenze, conosce i brani che stai suonando e si aspetta proprio quelli, suonati in un certo modo. Mi è capitato l’estate scorsa di assistere al concerto di un tributo ai Beatles... uno strazio... a metà serata ho sentito l’esigenza di andarmene; stavano praticamente demolendo l’opera omnia di Paul e soci.
Allo stato attuale è comunque praticamente impossibile creare qualcosa di totalmente nuovo... dal Canone di Pachelbel in poi le “citazioni”, o ispirazioni da qualcosa di scritto precedentemente, sono state la norma.

Avete mai pensato di poter presentare materiale di vostra realizzazione?

In effetti è un’idea che ci portiamo avanti dalla nascita del progetto Why Aye Men. Fino ad ora ci è mancato il tempo per impegnarci seriamente nella creazione di brani nostri, ma qualche buona idea sta cuocendo a fuoco lento.

Qual è il brano dei D.S. che vi da maggiori soddisfazioni in fase live?

Difficile rispondere. Da parte nostra cerchiamo di trarre soddisfazione da ogni brano, ma è vero che in alcuni c’è maggiore interazione tra i vari componenti, dialoghi tra chitarra e pianoforte, come in Tunnel of love, oppure tra chitarre, come in Solid Rock,  o tra chitarra e sax, come in Sultans of Swing. Anche brani con strutture particolari, come Once upon a time in the west, riescono a darci una certa carica. Dal punto di vista del pubblico sono principalmente certi brani a strappare l’applauso... Sultans of swing, Tunnel of love, Money for nothing... ma anche Telegraph road... dipende da molti fattori... la musica è materia viva e imprevedibile!

Dal punto di vista prettamente tecnico, esiste una trama musicale che vi ha fatto penare di più per arrivare a proporla con soddisfazione?

Telegraph road ci ha dato parecchio filo da torcere. Si tratta di un brano della durata di oltre 14 minuti, che alterna parti movimentate a momenti tranquilli. Viene suonata live da almeno 6 persone, mentre noi la proponiamo in 5; devo ammettere che Paolo, il tastierista, fa veramente l’impossibile... credo che un giorno o l’altro si sdoppierà davanti a noi durante l’esecuzione del brano...
Ci sono poi brani apparentemente semplici, ma che vanno affrontati col giusto pathos, soprattutto sul palco, brani d’atmosfera come Private Investigations o Brothers in arms... La concentrazione deve essere massima, altrimenti il brano sfugge al controllo e son dolori. Anche in questo caso è una questione di rispetto, verso la musica.

Qual è secondo voi il maggior pregio di Mark Knopfler, tra tecnica, gusto e innovazione?

Mark ha saputo mescolare diversi generi (blues, rock, country, folk...) aggiungendo il suo tocco e stile particolare. Il risultato è davvero stupefacente! È riuscito a creare un genere “Knopfler”, molto singolare e riconoscibile, passando con scioltezza dal rock al country, dal blues alla musica scozzese/irlandese. Ha affinato la sua tecnica nel corso degli anni, mantenendo comunque il suo particolare gusto per la buona musica. Non a caso compare in moltissime registrazioni di altri artisti: Sting, Randy Newman, Chieftains, B.B. King, Bob Dylan, Chet Atkins, Van Morrison. È noto anche il suo impegno sociale (Ferry Aid, spot contro l’alcolismo, contro l’apartheid...). Credo che un personaggio pubblico vada valutato anche per la sua statura morale, oltre che per la sua arte.

Che obiettivi vi ponete per l’immediato futuro?

Oltre al continuo perfezionamento e all’evoluzione del repertorio, abbiamo in programma il superamento dei confini nazionali. Per noi rimane comunque fondamentale il suonare più possibile, soprattutto a contatto col pubblico.