giovedì 19 maggio 2011

Donato Zoppo-"Amore, Libertà e Censura"


Raccontare “Amore, Libertà e Censura “ di Donato Zoppo non mi sembra una cosa semplicissima.
E’ uno di quei casi in cui, a scuola, avremmo pensato a buone possibilità di andare “fuori tema” e prendere un votaccio. L’enorme tentazione (e l’istinto) è quella di muoversi tra differenti “strati”, scivolando sulla figura di Lucio Battisti e arrivando alle vicende personali. Ma l’argomento è il libro, il che comporta una miriade di cose che hanno come start up l’autore e il suo pensiero.
Ma so già che fallirò miseramente e andrò un po’ a ruota libera.
Donato Zoppo ha fatto un lavoro egregio, da scienziato della materia, partendo da una frazione dell’intera storia battistiana, sezionandola, raccontandola, giustificandola attraverso testimonianze dirette, citazioni ed estratti dalla sterminata bibliografia esistente, il tutto avvolto dalla “storia del nostro paese”, dalla politica alle battaglie civili. Nell’intervista a fine post, l’ultima domanda riguarda “la macchina del tempo” e la differenza tra il racconto diretto e quello fatto attraverso lo studio e la raccolta dati. Non esistendo tale macchina occorre arrendersi e vivere il tempo che qualcuno ha scelto per noi, sperando di avere un po’ di fortuna, ma il lavoro tecnico/ scientifico che il “giovane Zoppo” ha realizzato, ha portato ad un risultato incredibilmente completo ed efficace.
La quota messa sotto analisi è un album, anomalo, “Amore e non amore”, sul mercato dal luglio 1971, dopo numerosi rinvii. E’ il primo vero 33 giri di Lucio Battisti, non essendo una raccolta di successi, come usava all’epoca, ma un insieme di inediti. E’ anche il disco della “divagazione” rispetto al pregresso, con la voglia di tracimare verso la musica progressiva che stava in quei giorni maturando. Forse è questo il motivo per cui “Progdonato” è rimasto affascinato da questa parentesi “nuova”nel percorso di Battisti.
Uno dei grandi pregi di un libro come questo (almeno per quelli della mia generazione) è l’incredibile effetto domino che si innesca immediatamente. Non è solo un risveglio della memoria, ma credo sia bene ricordare alcune cose che nel libro sono evidenziate da persone autorevoli, già immerse, in quanto protagonisti, in quel mondo lontano, mentre il mio ricordo è quello di chi all’epoca (1971) aveva quindici anni, amava la musica progressiva (anche se non sapevamo ancora che avrebbe assunto quel nome) e, per induzione, assimilava ogni cosa passasse su di una radio o juke box, Claudio Villa compreso.
Non ricordavo la svolta di “Amore e non amore”. Non ricordavo l’alternanza di brani come “Dio mio no” a lunghi pezzi strumentali. Non ricordavo nemmeno i titoli chilometrici di Mogol.
Come posso aver perso tutto questo?
Battisti ha caratterizzato la vita di milioni di giovani e ancora oggi sentendo certi suoi brani … sto male. Inutile spiegare l’ovvia motivazione. Ogni canzone un ricordo, sempre nitido e pungente.
Ma l’assoluta mancanza di elasticità mentale caratteristica della giovinezza, collocava la figura di Battisti a metà strada tra ciò che si doveva ascoltare e ciò che era assolutamente interdetto. Come testimonia Gianni Leone nel libro, nei magazzini di dischi la musica di Lucio era posta nella zona “musica facile”, e questo era già un deterrente, una spinta a non approfondire, almeno sino a quando si aveva il bisogno di “usare “ Battisti in maniera egoistica, a seconda delle necessità, quasi sempre in compagnia.
Analizzando quel periodo dopo quarant’anni ho la conferma che la casualità gioca un ruolo fondamentale sui nostri percorsi di vita e … se Lucio fosse nato a Liverpool… ad esempio, cosa sarebbe accaduto?
Il racconto di Donato conferma in pieno l’idea che avevo di Battisti, un uomo schivo per carattere, poco propenso al mettersi in mostra se non attraverso la sua musica, un po’ scorbutico e refrattario alle relazioni sociali pubbliche, poco incline ai compromessi, testardo, ma completamente differente nel privato.
Il privato e ciò che non dovrebbe interessare di un musicista, ma conoscerne i risvolti aiuta ad illuminare un personaggio, e se l’indagine non è rivolta alla ricerca del pettegolezzo il quadro può diventare davvero “da studio”, e quindi interessante.
Mi sono imposto, nel corso della lettura, di formarmi un’idea personale sulla motivazione che ha portato a volere a tutti i costi “Amore e non amore”, un album decisamente fuori dagli schemi, registrato assieme a quella che sarebbe diventata la PFM, più altri protagonisti oggi conosciuti.
Nessuna mania di protagonismo, o voglia di rinnegare il passato, ma un binario, per metà occupato dalla tradizione (anche se “Dio mio no” è di per se uno study case) e per l’altra metà dall’esigenza di cimentarsi e di tradurre in musica le emozioni derivanti dall’acquisizione di ciò che esisteva nel resto del mondo, una sorta di spugna che, assorbito il massimo consentito, tende a rilasciare ciò che è stato trattenuto da tempo. E poi la voglia di suonare in un gruppo, la quasi necessità di dirigere personalmente un ensemble di musicisti, il “provare” a discostarsi”, almeno una volta, dalla forma canzone.
Esperimento riuscito in pieno con un lavoro che, seppur lontano dai canoni battistiani, è il preludio ad una stagione che sarà quella delle Orme, del Banco, della PFM, degli Osanna; non di Lucio Battisti, il cui impegno in questo senso può considerarsi una parentesi, ma anche in questo caso il suo talento e la sua intelligenza musicale lo hanno reso un precursore dei tempi. Grande il contrasto di situazioni, con la volontà di raccontare e lanciare messaggi attraverso la sola musica (sorprendente se si pensa a quale fosse il pane quotidiano del binomio Battisti-Mogol), integrando solo con lunghissimi titoli (di Mogol) che, estrapolati dal contesto, fanno oggi sorridere.
Zoppo lascia molto spazio alla voce dei musicisti che hanno accompagnato Lucio da sempre; oltre a loro ho trovato eminenti figure il cui nome provoca sconvolgimenti interni ad ammalati di musica come io sono, uomini per me importantissimi, essendo essi il mezzo con cui nutrivo la mia “malattia”, attraverso la carta stampata (poca), la radio e la televisione. Leggere il libro per scoprirne di più.
Era anche un tempo in cui, accanto all’antipatico (ma capibile) fenomeno della censura (quanti segreti ci sono all’interno del book!) esisteva una stampa capace di influenzare il pubblico e quindi “temuta” dai musicisti.
Le recensioni di Caffarelli su Ciao 2001, per esempio, erano per noi oro colato e determinavano le scelte sull’acquisto, non essendo le tasche degli adolescenti piene di denaro. Erano anche i giorni in cui, come mi ha detto Armando Gallo recentemente, “bastava provarci per diventare delle star..”, e anche se l’Italia non era l’Inghilterra, il paragone tra i tempi potrebbe far rimpiangere il passato.
Curiosa la testimonianza di chi sottolinea una sorta di genesi dei problemi dell’attuale industria discografica, quella di chi racconta come già a inizio anni ’70 iniziò il calo delle vendite, fatto legato alla registrazione (ora diremmo “clonazione” di un CD o download in rete) di canzoni trasmesse in radio e catturate dallo stereo dell’amico benestante.
Il libro di Donato Zoppo è fatto di musica, di storia, di costume. Un analisi approfondita di come ci si muovesse in quei giorni, della dinamicità del businnes musicale e del torpido che fa parte della nostra vita, ma che è più interessante (anche se doloroso) quando il soggetto è un nostro idolo musicale. E’ soprattutto la creazione di una delle tante immagini (ogni persona che ha conosciuto il musicista potrebbe fornire la propria) di Lucio Battisti e del suo “clan” selezionato, piena degli ingredienti che rendono più grande chi già grande è per volontà divina. E’ anche una storia di amicizie e stime reciproche, di cose mai dette e solo pensate, di tanto amore e poco “non amore”.
Zoppo ci ha descritto alcuni aspetti un po’ particolari che a ben vedere, magari in dosi omeopatiche, sono racchiusi nella persona comune, e forse il quadretto che ne deriva, quello che fa emergere qualche lato debole, umano, in chi aveva ricevuto in dono un talento immenso, è quello che può far avvicinare definitivamente a Battisti… anche quelli come me e Gianni Leone che tenevano a debita distanza il reparto “musica di disimpegno”, quasi fosse un peccato avvicinarsi a canzoni come “I giardini di Marzo”, “Pensieri e Parole”, “Non è Francesca” e, per restare in tema, “Dio mio no”, perché nello stesso spazio avremmo trovato, ad esempio, le canzoni del Festival di Sanremo. Insomma, era tutto un evitare per paura di essere “contaminati”. Non era certo il tempo della saggezza!
Grazie Donato.

Appendice testi.

Il libro di Zoppo ha acceso altre mie curiosità e mi ha portato a riflessioni relative ad un campo per me ostico (riflessioni e curiosità sono reazioni a stimoli che un libro ed il suo autore dovrebbero sempre regalarci): mi riferisco alle liriche.
L’interpretazione di un testo è per me elemento di estremo interesse, ma trovo grande difficoltà nel collegarlo alle musiche, e preferisco immaginare delle parole e dei racconti attraverso i suggerimenti che mi arrivano dalla sola musica (spesso anche la voce è per me un mero strumento musicale). Le parole e i legami tra di esse avrebbero per me valenza (quando meritano) anche solo attraverso la lettura su carta, senza integrazione alcuna. Se poi ci si prendesse la briga di tradurre i brani di maggior successo di quel periodo, Beatles in primis, la delusione sarebbe enorme (e qui subentra la bellezza della musicalità della lingua inglese che tutto può calmierare).
Ma l’aspetto importante nel caso di Mogol è che un testo come quello di “Mio Dio no”, va analizzato nel contesto storico in cui nasce. L’argomento usato, la “passività” di un uomo sopraffatto dall’intraprendenza della donna che sta aspettando con trepidazione, non rispecchia l’immagine che tutti hanno ( o vogliono avere) del gentile sesso, nel 1971, e parlarne così apertamente è una vera rivoluzione, e la censura è la più ovvia conseguenza (e la miglior pubblicità).
Ma l’utilizzo delle parole unite alla musica ( e qui risiedono i limiti del mio pensiero precedente) può avere effetto di un detonatore in una polveriera.
Le parole di Mogol “.. le discese ardite e le risalite..” e “… planando sopra boschi di braccia tese..”, sono state utilizzate in comunicati e manifesti ufficiali come slogan politici, da fazioni poste agli antipodi, a dimostrazione (come dice Miche Bovi nel suo “Anche Mozart copiava”) che: “ le parole di Mogol sono più efficaci ed indelebili di quelle di Carlo Marx e di Julius Evola”.
A seguire una bella testimonianza di Paolo Giaccio che ricorda il 1971 di Battisti e a conclusione articolo Donato Zoppo risponde a cinque mie domande.


Pensieri e parole di Paolo Giaccio …


Anno 1971. Mentre Mario Luzzatto Fegiz e io, con l'aiuto di Carlo Massarini, conduciamo Per Voi Giovani, il programma dedicato alla musica rock internazionale e alla più innovativa musica italiana, Lucio Battisti lascia la Ricordi e forma, con Mogol, una sua etichetta indipendente: la Numero Uno. Oltre che al controllo degli affari la mossa gli serve per garantirsi la più completa libertà artistica e creativa La promoter è Mara Maionchi. E' lei che ci fa ascoltare in anteprima Pensieri e Parole, la nuova canzone di Battisti. Non siamo però, i primi. La canzone è stata appena rifiutata da Arbore e Boncompagni, autori di Alto Gradimento, un altro programma radio di grande successo artefice del lancio di molti hit discografici, perché ritenuta inadatta al loro stile di programmazione. Noi la prendiamo in esclusiva. Ricordatevi che, in quegli anni, non c'erano altre radio se non quelle della Rai. Quindi, a parte chi aveva il disco, l'unico modo per ascoltarla era quello di sintonizzarsi sul nostro programma. Questa esclusiva, unita al primo posto subito raggiunto nella classifica di vendita dei singoli, lancia la canzone e il nostro programma, consolidando anche su un pubblico di studenti la notorietà di Battisti. Pensieri e Parole si svolge su un doppio piano vocale, con un fraseggio che riannoda il dentro e il fuori di una persona. Sfiora i temi della psicanalisi, contrappone una vita di sentimenti semplici e genuini ai sogni e ai progetti di un uomo in crescita. Racconta le lacerazioni sentimentali che un uomo appena adulto deve affrontare, trovandosi già ingabbiato in ruoli e responsabilità. Descrive bene, con le parole di Mogol, la poetica misteriosa di Battisti, a quel tempo profondamente legato, quasi come un gemello, al paroliere. Un week end passato in campagna, vicino a Lecco, con tutta la tribù di Mogol e Battisti, serve a confermarmi queste impressioni. Serve anche a far superare a Battisti diffidenze e timidezze. Come è noto Battisti evitava il più possibile i contatti con giornalisti e dj. Dopo quel week end mettiamo in cantiere una lunga intervista radiofonica per presentare in anteprima nel nostro programma il suo nuovo album: Il Mio Canto Libero. L'intervista dura vari giorni. Inizia in una sala prova, in campagna. Non contenti del risultato ci spostiamo poi in uno studio a Milano, dove Battisti, al pianoforte, canta dal vivo tutti i pezzi dell'album e molte altre sue famose canzoni. E' così che nel 1972, per un'intera settimana, siamo in grado di presentare nel nostro programma un ospite che mai, fino ad allora, e neanche negli anni a seguire, accetta di mostrarsi così intimamente e sinceramente ai suoi ascoltatori: il suo nome è Lucio Battisti.

 … e Donato (mi) risponde…



La scrittura del libro e le lunghe ricerche indotte ti avranno condotto sicuramente ad aneddoti e a situazioni, magari non rilevanti, ma che ti hanno colpito particolarmente, su Lucio Battisti o su qualcuno/qualcosa del suo mondo. Hai qualcosa che ti preme evidenziare, e che magari non ha trovato spazio nel libro?

Il libro è una buona ed esauriente sintesi delle mie ricerche, nulla è rimasto fuori poiché tutto serviva a dare il quadro completo di quel Battisti. Un Battisti voglioso di libertà, di rock-blues, di sperimentare senza pressioni discografiche. Indubbiamente nelle lunghe chiacchierate con Franz Di Cioccio, Alberto Radius, Franco Mussida e Fico Piazza il riferimento personale e “umano” è venuto fuori: questi musicisti hanno condiviso con Lucio buona parte della loro giovinezza e anche se Battisti era già allora un ragazzo riservato e poco espansivo, tutti quanti mi hanno reso partecipe di ricordi, sensazioni ed emozioni. Ad esempio Valter Patergnani, il leggendario ingegnere del suono della Ricordi, mi ha raccontato davvero per ore e ore i suoi ricordi con Lucio, anche al di là del disco Amore e non amore: ad esempio quando Lucio ha dovuto registrare il primo provino per la Rai – quello scartato perché “fonicamente non accettabile”… - beh al bando di regia c’era proprio Patergnani, che anni dopo sarà tra i responsabili del focoso Amore e non amore.

Per quelli della mia generazione, affascinati dall’ascolto di certa musica (prog), Battisti era considerato “commerciale”, anche se poi ogni momento della nostra adolescenza ha avuto come riferimento le sue canzoni. Tu che, anagraficamente parlando, sei al di fuori delle “stupide” posizioni di noi giovanotti dell’epoca, da cosa sei rimasto abbagliato, cosa ti ha spinto ad approfondire la storia e le opere di Battisti?

Battisti ha prodotto musica talmente importante da essere la colonna sonora della vita di ognuno di noi, a prescindere dall’età e dall’estrazione sociale, culturale e locale. Per chi, come me, ascolta e racconta la musica, il patrimonio battistiano è imprescindibile. Come si fa a non amare Anima latina, Io tu noi tutti, Il mio canto libero? Sono album che hanno definito la storia della canzone italiana, e francamente non li definirei neanche commerciali nel senso negativo che solitamente si appioppa a questo aggettivo: il binomio Battisti-Mogol ha lavorato per la massa, ha proposto musica “popolare” poiché rivolta alla massa, eppure lo ha fatto raggiungendo l’obiettivo più importante: la qualità. Ecco cosa mi ha sempre affascinato: perché pezzi come EmozioniIl nostro caro angeloE penso a teGli uomini celesti (tanto per fare qualche nome a caso) sono così belli, raffinati, ricercati eppure così popolari? Qual è il segreto? Ecco cosa mi muove a studiare Battisti e a raccontarlo. Ne ho raccontata una fase, quella meno nota del 1971 e di Amore e non amore, un disco figlio di un artista irrequieto, con tanta voglia di suonare in modo libero, il rock-blues che amava, confrontandosi addirittura con la direzione d’orchestra e strizzando l’occhio al progressive d’Inghilterra. E stiamo parlando del cantante popolare, da classifica, che tutti conoscono … Cos’altro c’è di più stimolante?
Nel corso delle tue interviste e ricerche, hai trovato aggettivi “appiccicati” a Lucio, comuni alle varie persone intervistate? Sei riuscito a creare, di lui, un tuo profilo?

Premesso che le mie interviste erano focalizzate su Amore e non amore e sul biennio 1970-71, due aggettivi sono stati i più frequenti: perfezionista e spontaneo. Se ci pensi sono due contraddizioni, eppure Lucio era tutto fuorché schizofrenico. La spontaneità era la sua bussola, il suo elemento di orientamento, forte com’era il suo desiderio di arrivare al cuore dell’ascoltatore suscitandogli un’emozione. Per farlo doveva essere spontaneo, immediato, credibile, e ci riusciva, tanto che interiorizzava rapidamente i testi scritti da Mogol. Ma al tempo stesso era un musicista. Il miglior produttore di se stesso, oltre che un esigente musicista. Per raggiungere i suoi risultati doveva dunque chiedere molto alla sua musica, ai suoi musicisti, ed ecco il perfezionismo. Ma era un perfezionismo sui generis: in Dio mio no doveva ricreare l’atmosfera torrida di un incontro amoroso, di una lei vorace che dopo aver spazzolato via la cena vuole anche trombarsi il suo lui, ebbene cosa fa Lucio? Sceglie di improvvisare il pezzo in studio, un solo accordo in Mi 7 con tre chitarre per ben 7 minuti, con assoli improvvisati di Baldan e Radius, il finale chiamato senza preavviso. Insomma, il perfezionismo della spontaneità! L’idea che mi sono fatto di Lucio è di una persona difficile perché era un vero, grande artista: estremamente concentrato sulla sua musica, completamente asservito alle note, per questo sicuro di sé e del suo talento, talmente sicuro da risultare anche sbruffone e spesso intrattabile. Però se dovessi riassumere in poche parole: un compositore coraggioso, libero e orgoglioso.

Se potessi dare seguito, a tuo piacimento, a biografie di artisti ormai scomparsi, su chi ti butteresti a capofitto?

A me piace seguire delle tracce, girare intorno agli interrogativi e poter offrire delle risposte, con Amore, libertà e censura penso di averlo fatto. Tra gli scomparsi ad esempio mi piacerebbe esplorare John Coltrane, Alice Coltrane, Miles Davis (uno dei musicisti che esercita maggior fascino su di me), lo stesso John Lennon, ma anche figure tuttora viventi e enigmatiche come Peter Green, Roky Erickson, Bill Laswell, Robert Fripp, Giovanni Lindo Ferretti e infine Battiato, cantautore al quale devo molto perché mi ha aiutato a sondare certe correnti gravitazionali che mi hanno portato a pensatori a me molto cari, Gurdjieff su tutti. Tra l’altro Battiato ha realizzato un documentario su uno scrittore che amo, ovvero Gesualdo Bufalino: sarebbe eccitantissimo esplorare i rapporti tra i due, ammirare la grazia dell’uno e la levità dell’altro, e trovare sapori di Sicilia antica nell’arte di entrambi. Un’altra traccia che prima o poi seguirò mi porterà nel Mali, alla ricerca del blues del deserto di Ali Farka Tourè e dei Tinariwen…

Donato, onestamente, hai mai pensato che, almeno per un po’ di tempo, vorresti essere un po’ più vecchio per vivere in prima persona una parte della storia della musica che non tornerà più?

Beh ti confesso che qualche volta, magari alle prese con qualche ricerca piuttosto faticosa, il desiderio di entrare in una macchina del tempo l’ho avuto, ma si è trattato di situazioni molto sporadiche. A me piace scrivere, e intendo la scrittura come uno strumento per raccontare qualcosa: per me raccontare significa annullarsi, farsi canale tra un evento (che può essere un disco, un concerto, la vita di un artista, un momento storico) e il lettore, significa fare da interprete. Purtroppo, soprattutto nell’ambito rock e in particolare tra i reduci del rock progressivo, c’è la convinzione che per raccontare gli anni ’70 sia necessario averli vissuti: sicuramente essere stato testimone diretto di un evento aiuta a rievocarlo ma è possibile narrare gli anni ’70 anche senza esserci stato. È doveroso saper studiare, raccogliere e valutare le fonti, documentarsi senza sosta e realizzare delle interviste. D’altronde Theodore Mommsen la storia di Roma non l’ha vissuta in prima persona, né Piero Melograni (o il nostro Riccardo Storti) è andato a cena con Mozart, eppure ci hanno offerto dei saggi imprescindibili…