domenica 6 novembre 2011

Andrea Gianessi- "La via della seta"


 
LA VIA DELLA SETA” è un album realizzato da Andrea Gianessi.
La descrizione oggettiva della forma e della sostanza, relativa alla filosofia musicale di Gianessi e ai risvolti che hanno portato a realizzare questo interessante lavoro, è in buona parte racchiusa nell’intervista a seguire.
E per chi non si accontentasse, esiste il sito personale che giudico di rara completezza, e da cui si può scoprire il “mondo Gianessi”.
Undici brani per quasi quarantacinque minuti di musica, le cui liriche oscillano tra l’italiano e la lingua inglese.
La lettura del titolo dell’album è un indizio che si rafforza dando uno sguardo alla strumentazione utilizzata: bouzouki, violino, flauto traverso, violoncello, fisarmonica, percussioni varie…
"Il viaggio" è dunque l'argomento, tra la nostra cultura e quella orientale, tra il nostro mondo e ciò che un tempo era un orizzonte per pochi ed ora si può, volendo, toccare con un dito.
Ma tutto questo si percepirebbe in questa unica direzione se a guidarci nel nostro percorso ci fosse solo la musica di Andrea. Le parole suggeriscono invece un secondo, lungo, sofferto trip, attraverso i problemi che ci affliggono quotidianamente, miscelati ai percorsi più intimistici, tra sogni e devastazioni, tra immoralità e luce fioca di speranza.
E tra i vari “episodi” appare ciò che alla fine salve le nostre vite, spesso in balia di decisioni di “altri”: la contemplazione delle cose semplici che ridà la giusta proporzione al nostro incedere, la natura nel suo vestito migliore, il godimento di un attimo sereno, la giusta compagnia … cose che si danno per scontate e che spesso si riescono ad apprezzare soltanto quando si è in netto ritardo sulla personale tabella di marcia della nostra esistenza.
Se musica come quella di Andrea Gianessi si ascoltasse con attenzione, vivendola appieno, e cercando di carpirne l’essenza, beh … forse certi momenti semplici e lieti potrebbero moltiplicarsi!
Questi i messaggi che ho afferrato, conditi da melodie e atmosfere mediterranee che mi hanno sensibilmente colpito. Musica etnica adattata all’esigenza di Andrea Gianessi, musica, probabilmente, da”vedere”.
E la fase live diventa la mia nuova curiosità.



L’INTERVISTA
 
Il progetto “La via della seta” racchiude gli intenti nel titolo stesso. Leggendo i testi mentre la musica scorre, il viaggio appare duplice: di tipo spaziale, sottolineato da suoni che evocano passaggi in terre lontane, e di tipo interiore, attraverso riflessioni personali e la contemplazione di ciò che ci circonda. Questa tua “esigenza” costituisce l’apice di un’evoluzione o è semplicemente il tuo modo di essere?
 
E' sicuramente un modo di essere: la sospensione tra realtà e immaginazione, tra il “qui e ora” e l'altrove, il trarre le impressioni dal mondo presente e allo stesso tempo interiorizzarle. Chiaramente poi anche tutto questo presuppone un'evoluzione personale, un procedere a tentativi per sperimentare nuove vie. Il tema del viaggio, come noti tu, è in effetti osservabile sotto numerosi aspetti: oltre a quello spaziale e interiore io stesso mi stupisco di trovarne sempre di nuovi. Riascoltando a disco finito la sequenza dei brani per esempio mi son reso conto di aver tracciato, tra gli altri, anche un percorso di progressiva liberazione dalle miserie morali e sociali del nostro tempo, verso uno spazio del pensiero, dell'astrazione, dell'onirismo.
 
Le tue denunce e i tuoi messaggi sono ovviamente condivisibili; ogni periodo storico conduce verso nuove situazioni precarie a cui occorre dare visibilità. Quanto differisce, nel modo, la tua proposta rispetto a quella dei cantautori della prima ora? Ti sei ispirato a qualcuno di loro, almeno in fase formativa?
 
A livello musicale direi che il mio lavoro è cominciato con la destrutturazione della canzone stessa, intesa nel senso pop. In questo disco ho fatto tabula rasa, insieme ai miei musicisti, abolendo per esempio le consolidate impalcature della musica leggera, come basso e batteria. Poi ho ricostruito una forma cercando di utilizzare altri mezzi espressivi, partendo da una nuova funzione strutturale degli strumenti, in primo luogo le percussioni, che qui non sono più meri colori timbrici ma elementi portanti. Riassumendo direi che mi sono imposto dei limiti per provare a superare le convenzioni. Riconosco chiaramente i miei maestri, sono molti e citarli tutti sarebbe già un esercizio di memoria. Così d'istinto nominerei subito gli eterni De Andrè, Battisti e Battiato, ma anche i Beatles e i Pink Floyd, e poi gli ottimi gruppi del prog italiano e inglese, la psichedelia, il folk e buona parte della musica rock. In generale mi hanno sempre affascinato le contaminazioni e allo stesso tempo la bellezza della semplicità, così difficile da raggiungere.
 
Le tue liriche sono nella nostra lingua ma non disdegni la musicalità dell’inglese. Come riesci a dosare il mix tra i due idiomi?
 
L'inglese ha sicuramente delle caratteristiche metriche e sonore che mi interessa sperimentare in musica, specialmente in congiunzione con l'italiano, del quale mi sento certo più padrone. Comunque una delle cose che mi affascina davvero delle varie lingue è il fatto che spesso esse portano con sé implicitamente anche un modo di pensare e di esprimere concetti del tutto diverso. Scrivere per esempio in inglese attiva associazioni di idee e immagini che in italiano non sarebbero possibili e viceversa. Penso sia stimolante sfruttare anche questa varietà linguistica e provo a integrarla con le musiche che compongo per dare molteplici sfaccettature di senso.
 
L’utilizzo di alcuni strumenti etnici riportano ad atmosfere mediterranee e a quell’oriente a cui si arriva immediatamente leggendo il titolo dell’album. Come sei arrivato a maturare questa situazione, dopo aver fatto lunghe esperienze musicali, non solo in Italia.
 
E' stata un'esigenza di libertà. La via della seta è storicamente il luogo dell'incontro tra le culture, e da una prospettiva di incontro e contaminazione io credo non possa che giungere un rinnovamento vitale per ogni persona e per ogni progetto. Come dicevi ho attraversato molte esperienze artistiche in questi anni. Scivolando tra i generi ho visitato con varie formazioni il rock, il pop, l'elettronica, la psichedelia, il funky, il folk, le colonne sonore, le musiche di scena, la multimedialità e il sound design. L'esperienza forse più importante a livello personale e professionale è stata la totale e libera sperimentazione che ho avuto modo di portare avanti con il collettivo artistico Nihil Project, con quattro album e ormai dieci anni di esplorazioni folli e davvero liberatorie. Poi ho sentito l'esigenza di ricostruire una nuova forma, di ritornare alla canzone nel modo più semplice, con gli strumenti acustici e con arrangiamenti ben studiati, senza più troppo spazio per l'alea e la free form. Come dicevo prima: mi sono rimesso dei limiti fisici per acquisire un nuovo tipo di libertà, musicale e interiore.
 
Un progetto come il tuo non può prescindere dal “gruppo di lavoro”. Come è nata e come stai vivendo la collaborazione con i tuoi compagni di viaggio? E’ necessario il sentimento dell’amicizia o è sufficiente una buona professionalità?
 
Nasce tutto dall'amicizia. Ho avuto la fortuna di avere come amici dei musicisti professionisti conosciuti negli anni che hanno creduto nel mio lavoro di autore e con i quali ho condiviso un percorso umano prima ancora che musicale. La formazione originaria del progetto è nata in trio con Francesco Giorgi al violino e Francesco Gherardi ai tabla, oltre a me alla chitarra e bouzouki. Poi nel tempo sono transitati altri musicisti (tra cui voglio ricordare Silvio Ripamonti alla tromba) fino ad arrivare a quello che è stato il set live per eccellenza, con l'aggiunta di Domenico Candellori alle varie altre percussioni e Antonello Bitella al flauto traverso. Abbiamo fatto circa due anni di concerti e festival con questa band prima di incidere il disco, su cui sono poi intervenuti anche Alessandro Zacheo alla fisarmonica e Maria Paola Balducci al violoncello. Fondamentalmente si può dire però che sul disco suonino gli stessi musicisti che sarebbero nella mia formazione live completa.
 
Cosa rappresenta per te la fase live?
 
Siamo in effetti nati proprio come gruppo live e tuttora credo che una buona esperienza dal vivo sia essenziale per la riuscita di un progetto musicale. Uno dei famosi “limiti” che mi sono imposto è stato che il disco fosse interamente suonabile dal vivo, senza tecnisicmi da studio eccessivi o alterazioni improbabili. L'album si può dire in effetti il prodotto evoluto degli arrangiamenti che abbiamo perfezionato insieme suonando live nel periodo dell'ideazione del disco, e la cosa divertente è che i brani stanno continuando ad evolversi e sono già diversi ora nel live rispetto a quando li abbiamo registrati. Poi si sa, le varie situazioni in cui ci si trova a suonare impongono degli aggiustamenti per cui mi sono trovato a fare concerti persino in duo, o con varie altre combinazioni di musicisti. Si sono anche aggiunti nel frattempo altri membri stabili come il percussionista e tablista Ayub Muhammad che hanno apportato anche nuove idee ed esperienze. Prossimamente poi farò un nuovo tour con la formazione originaria a trio, che ha sempre un feeling particolare. Insomma se mi concedi un piccolo gioco di parole il live è decisamente la parte “viva” di un progetto musicale, anche se ultimamente sta diventando sempre più difficile sostenerla e alimentarla.
 
Il mio contatto quotidiano con “nuova musica”, mi porta spesso a trovare lacune di visibilità, cioè proprio in quel settore in cui, se esistono mancanze, sono volute, tanto è efficace la tecnologia disponibile. Ho invece trovato estremamente completo ed esaustivo lo spazio che ti sei creato in rete, un giusto completamento al tuo lavoro in studio/live. Quali sono i punti deboli di internet, se si è musicisti emergenti?
 
La tecnologia di oggi ci consente una esposizione mediatica molto maggiore del passato, e da parte mia ho cercato di utilizzare al meglio i mezzi a disposizione, partendo dal mio sito web andreagianessi.it, al blog, fino ad arrivare ai vari social network . Certo è che nel “mare magnum” di informazioni che ogni giorno ci bombardano è comunque difficile stabilire un contatto profondo e reale con le persone. Credo quindi sia giunto il momento di tornare alla realtà, perchè la virtualizzazione di tutti i rapporti umani comincia a diventare insostenibile, non solo per i musicisti. Anche l'eccesso di comunicazione poi è in parte dannoso: viviamo sempre di più in un mondo dove tutti urlano e nessuno ascolta.
 
Riesci a tracciare un giudizio sulla situazione dell’attuale business musicale?
 
Penso che in generale l'economia basata sul mercato stia arrivando ad una fine ineluttabile, implicita nel sistema stesso. Il cosiddetto business musicale ne è stato se vogliamo l'ignaro precursore e lo specchio: è un'industria che ha cannibalizzato se stessa, immiserendo le proprie risorse principali, ossia i musicisti e la musica, rinunciando ad evolversi e puntando sulla massimizzazione dei profitti, che una volta capitalizzati sono stati investiti in altro, magari in operazioni finanziarie. La cosa divertente è che si da la colpa alla tecnologia e agli mp3, come se la vendita degli iPod o i provider internet non avessero creato anch'essi profitti. Noi comunque si va avanti alla cieca in questo sistema al tracollo, un po' per inerzia, un po' per mancanza di concrete idee alternative o forse anche per l'impossibilità di realizzarle in solitudine. Ma questo forse non riguarda solo la musica. Ultimamente guardo con interesse alle teorie della decrescita.
 
Strumenti acustici… strumenti etnici… qual è il tuo rapporto con la tecnologia e con la sperimentazione?
 
Come ti dicevo ho sperimentato molto, col Nihil Project e con diverse altre situazioni musicali e teatrali. Ho passato anni fa una fase di sbornia elettronica e multimediale al termine della quale ho provato un certo senso di fastidio e di poca libertà nell'essere troppo legato alle esigenze di macchine che hanno ben poco di umano. La tecnologia comunque mi ha sempre interessato, come mi affascina l'idea di risolvere elegantemente problemi complessi. L'esigenza mia di tornare ad una strumentazione acustica è legata principalmente al recupero di un fattore umano nella musica: riprendere il contatto diretto e direi quasi materiale e immediato con la creazione è stato per me terapeutico e liberatorio. Con ciò non voglio assolutamente demonizzare l'elettronica o la sperimentazione, era una mia esigenza personale e per il futuro non escludo nulla.
 
Prova a disegnare il tuo futuro musicale da qui al 2013.
 
E' un futuro musicalmente molto aperto, spero il più possibile, vorrei evitare di segregarmi in nicchie, integralismi o in generi ortodossi come “la musica etnica”. Continuerò sicuramente a scrivere canzoni ma penso che sperimenterò altre combinazioni strumentali, altre forme, altre culture. Aumenteranno le collaborazioni, gli scambi musicali, e la formazione del gruppo sarà più flessibile. Dopo l'attuale fase di decostruzione e di auto-limitazione reintrodurrò forse persino la batteria e il basso, o perchè no anche componenti elettroniche, e magari anche strumenti come la ghironda, il banjo, l'ukulele o il vibrafono, il contrabasso, il flicorno, o il pianoforte, altro grande assente in questo disco. Non voglio chiudermi a nessuna possibilità, sarà una musica del mondo nel vero senso della parola!

Line Up:
Andrea Gianessi: voce, bouzouki, chitarra.
Francesco Giorgi: violino, cori.
Antonello Bitella: flauto traverso, cori.
Francesco Gherardi: tabla, percussioni, cori.
Domenico Candellori: tamburi a cornice, darbuka, cajon.
Maria Paola Balducci: Violoncello
Alessandro Zacheo: Fisarmonica