lunedì 24 maggio 2010

La composizione nella musica rock: una questione aperta, di Innocenzo Alfano


Propongo oggi un altro autorevole articolo di Innocenzo Alfano

Chi compone le musiche nei gruppi rock? La risposta sembra più che scontata: basta leggere il nome della persona, o delle persone, scritto sotto i titoli dei brani sulla copertina dei dischi; quello è il soggetto che ha composto la musica. Ovvio, verrebbe da dire. Il guaio, tuttavia, è che nel rock le domande apparentemente più banali nascondono spesso risvolti inaspettati. In alcune parti di “Effetto Pop”, libro pubblicato alla fine del 2008, mi ero sforzato di spiegare, facendo degli esempi, che la composizione di un brano di musica rock, escluse le liriche, è quasi sempre di natura collettiva. Detto in altri termini, i versi sono scritti (di solito) da una persona sola, generalmente dal cantante, la musica da tutto il gruppo. Eppure, nella stragrande maggioranza dei casi autore e titolare di interi brani risulta, contro ogni logica, uno solo dei componenti di una band composta da almeno tre individui, che così, oltre a veder crescere il proprio prestigio artistico, si accaparra pure tutti i diritti economici legati alla commercializzazione e diffusione radiofonica di quegli stessi brani. Cerchiamo ora di svolgere qualche ulteriore riflessione, sia pure sintetica, sull’argomento.
Partirei dal mio amico Marco Masoni, cantante e bassista dei Germinale, un ottimo gruppo di rock progressivo costituitosi a Pisa all’inizio degli anni ’90, il quale, nel corso di un incontro pubblico in cui veniva presentato “Effetto Pop”, sostenne che la composizione di un brano di musica rock possa essere circoscritta alla linea melodica principale e agli accordi che la sostengono, e che tutto il resto non sia altro che “arrangiamento”. Quello di Masoni, a ben vedere, è un punto di vista assai diffuso tra chi si occupa di musica rock, ma a mio avviso sbagliato. Infatti è un po’ come dire che la Quinta Sinfonia di Beethoven, o perlomeno il suo movimento iniziale (“Allegro con brio”), coinciderebbe con le sue prime due battute  quelle, per intenderci, che contengono il memorabile inciso di tre crome e una minima –, mentre tutto il resto, visto che è costruito attorno a quelle due battute, non sarebbe altro che “arrangiamento”. Una teoria un po’ troppo semplicistica, devo dire. A mio giudizio il cosiddetto arrangiamento è al contrario parte integrante, cioè strutturale, di un brano pop o rock che dir si voglia, e anzi è quasi sempre la parte più complessa da immaginare, definire in tutti i suoi dettagli ed infine suonare: tutti aspetti che hanno a che fare, volenti o nolenti, con ciò che chiamiamo composizione, e a cui tutti i componenti di un gruppo prendono parte.
La prassi di attribuire la titolarità di un brano rock ad uno solo dei membri di un ensemble era particolarmente comune negli anni ’60. In certi casi, però, i musicisti erano più solidali tra loro e soprattutto rispettosi del lavoro altrui. Sul retro di copertina del 33 giri “Arthur or the Decline and Fall of the British Empire”, pubblicato nel 1969, gli inglesi The Kinks, un quartetto all’epoca molto noto, inserirono due piccole avvertenze per informare gli acquirenti del disco circa il metodo usato per la composizione dei 13 brani inclusi nell’album. La prima diceva All songs written by Ray Davies, la seconda Tracks arranged by The Kinks. Il che è corretto, perché se è vero che i testi delle canzoni furono scritti dal solo Ray Davies, è anche vero che gli stessi vennero poi musicati da tutto il gruppo. La collegialità del lavoro di composizione veniva in questo modo per così dire certificata.
I Beatles, come si sa, avevano invece l’abitudine di indicare come autori dei loro brani, tranne rarissime eccezioni, la coppia Lennon-McCartney, escludendo sia Harrison che Starr e sia, soprattutto, il loro produttore e supervisore musicale George Martin, che con i suoi consigli ed i suoi numerosi arrangiamenti contribuì a rendere indimenticabili molte delle canzoni del più famoso gruppo rock degli anni ’60. Giusto per avere un’idea dell’importanza avuta da un personaggio come George Martin nell’evoluzione artistica dei Beatles, e, per quel che ci riguarda più da vicino, nel processo compositivo del quartetto inglese, una volta di lui John Lennon disse: «Aveva davvero una grande conoscenza della musica e un’eccellente preparazione, perciò ha saputo tradurre in pratica le nostre idee e suggerire tutta una serie di soluzioni tecniche… Quando gli dicevamo che volevamo fare ‘Ooh-ooh’ e ‘Ee-ee’!, lui ci diceva, ‘Oh, fantastico! Grande! Mettiamolo qui!’. È difficile dire chi fece cosa… Ci ha insegnato molto e sono sicuro che noi abbiamo insegnato a lui altrettanto, con le nostre conoscenze musicali così primitive» (cfr. La teoria del Sale e Pepe, di George Martin, in «Alias», Supplemento settimanale de “il Manifesto”, n. 48, 6 dicembre 2008, p. 13).
In quel mare di anomalie e contraddizioni che è il rock esistono persino album intestati ad un musicista che però non figura come autore di nessuno dei brani, o temi, inclusi nel long playing. Un caso paradigmatico in tal senso è quello del 33 giri “Wired” di Jeff Beck (1976), dove neppure una delle otto composizioni del disco risulta “scritta” dall’eccellente chitarrista inglese. Metà dell’album è infatti attribuita al batterista Narada Michael Walden, mentre i restanti quattro brani portano la firma di quattro autori diversi, e cioè Max Middleton, Jan Hammer, Charlie Mingus (suo è il memorabile tema di Goodbye Pork Pie Hat, l’unica cover presente nell’lp) e Wilbur Bascomb/Andi Clark. Per di più Jeff Beck, oltre a figurare come solitario titolare dell’album, è anche l’unico dei musicisti coinvolti nell’ottimo progetto discografico – uno dei migliori in ambito jazz-rock di quegli anni – a comparire sulla copertina del 33 giri, sia sul fronte che (quattro volte) sul retro.
All’estremo opposto troviamo il caso assurdo di un pezzo per chitarra acustica intitolato Horizons incluso dai Genesis nell’album “Foxtrot” (1972) ma attribuito a tutta la formazione e non al solo Steve Hackett, che lo compose – ispirandosi a J. S. Bach – e lo eseguì nel 33 giri in perfetta solitudine. A proposito di Hackett vorrei sottolineare la risposta che l’ex chitarrista dei Genesis ha dato nel corso di un’intervista a chi gli chiedeva del suo passato con la celebre formazione inglese di rock progressivo: «Sono molto orgoglioso del mio contributo alla musica dei Genesis. Eravamo una grande band» (Cfr. Hackett dai Genesis in poi: «Io come Frankenstein», in “La Nazione”, 12 marzo 2009, p. 31). La cosa più interessante in questa dichiarazione è il fatto che Hackett usi il termine “contributo”, una parola che, a mio parere, è proprio quella più adatta, forse più di composizione, per comprendere il problema del “chi ha composto cosa” nei brani di musica rock.
L’articolo è stato pubblicato su “Apollinea”, Rivista bimestrale del territorio del Parco Nazionale del Pollino, Anno XIV – n. 3 – maggio-giugno 2010, pag. 34.