venerdì 28 novembre 2008

Ian Siegal


Ancora un grande avvenimento al Raindogs di Savona.

Domani sera gli amanti del blues potranno ascoltare Ian Siegal.
Provo a presentarlo, attraveso il "lavoro di altri", essendo per me un artista tutto da scoprire.

Le vie del blues secondo Ian Siegal: l’intervista di Massimo Baraldi.

C’è chi sostiene che il blues sia la musica del diavolo e, in queste cose, ognuno è libero di pensarla un pò come vuole. Certo, dopo aver assistito a un concerto di Ian Siegal, è difficile non cominciare a crederlo: tanto scalcia, sibila, barrisce e strepita che pare averne un’intera orda dentro di sé: suona come se stesse andando a fuoco, ma fosse troppo impegnato a tenere il ritmo per preoccuparsi di spegnere le fiamme.

Classe 1971, devoto a Muddy Waters e Son House come a Tom Waits, Ian è un personaggio che sembra fatto su misura per il palcoscenico. Interprete carismatico e appassionato, unisce uno stile chitarristico ruvido e vigoroso a una voce camaleontica che non può non impressionare per estensione e mutevolezza. Forse le ragioni non saranno tutte qui, ma già queste spiegano perché oggi si parli di lui come di uno dei bluesmen più rappresentativi non solo della scena britannica attuale, ma dell’intero Vecchio Continente.

MB: La prima volta che ho incontrato te e la tua National Triolian del 1929 è stato grazie a Norman Hewitt e al suo “Blues to Bop”, a Lugano, nel 1999. Allora eri una brillante promessa, oggi sei riconosciuto come uno dei più influenti bluesmen del Regno Unito. Niente male, non hai di che lamentarti.
IS: Oh no, non mi lamento affatto! Non ho ancora capito esattamente perché sia successo, ma ne sono estremamente felice. Le cose mi stanno andando piuttosto bene ora. Ai tempi del Festival ero agli inizi, e non posso che ringraziare Norman per avermi offerto quell’opportunità. È un gran bravo tipo, per essere un inglese.

MB: Ma non sei inglese anche tu?
IS: Sì, appunto.

MB:Se mio padre fosse ancora vivo, direbbe: "Questo è il mio ragazzo!”, a dirlo è stato Big Bill Morganfield, il figlio di Muddy Waters, parlando di te. Se è vero che suo padre è il tuo eroe musicale, non mi viene in mente un complimento migliore!
IS: Già. Lo è. Sai, Muddy aveva un sacco di “figli” che non erano propriamente suoi: Johnny Winter o Paul Oscher, per esempio. Lui ha “adottato” quei ragazzi bianchi e se li è portati a casa, per insegnar loro il blues. Big Bill sostiene che la stessa cosa sarebbe successa con me, se solo mi fossi trovato in giro al momento giusto. Lo considero un bellissimo complimento, è una cosa bella da dire. Sono parole che non dimentichi.

MB: So che sei stato in tour con Big Bill.
IS: Sì, diverse volte. Lui dice che siamo fratelli, di sangue. Certo, però, se fosse vero sarebbe piuttosto strano! È un tipo in gamba. Un enorme orsacchiotto.

MB: Sei solito alternare performance acustiche in solitaria a concerti con la tua band. L’atmosfera è completamente diversa… a volte fai entrambe le cose, altre no. In quale situazione ti senti maggiormente a tuo agio?
IS: Da solo sei libero, non devi preoccuparti di tenere insieme nessuno, ma con una band c’è più eccitazione, divertimento, rock ‘n’ roll. Non ho una preferenza, mi sento a mio agio comunque.

MB: Hai lavorato duro per molto tempo, poi nel 2003 e 2004 hai avuto un’ottima visibilità aprendo i tour europei di Bill Wyman e i suoi Rhythm Kings. Com’è andata? E in che occasione lo hai incontrato, la prima volta?
IS: Non ricordo esattamente quando è stato; avevamo lo stesso sassofonista, è così che venni a sapere che stavano cercando qualcuno a cui affidare l’apertura. Fu lui a mostrargli il video di un mio concerto al Festival di Edimburgo, e Bill deve aver pensato “Va bene, questo è uno a buon mercato, uno facile.” È stata una grande esperienza, di lui posso dire che è stato estremamente gentile. Prima di me non si erano mai portati in giro nessuno. Soggiornavamo negli stessi hotel, viaggiavamo sullo stesso bus, per qualche ragione, mi hanno concesso di essere parte della band. Eravamo come una famiglia. È stato bello. Loro sono alcune tra le persone migliori che io abbia mai incontrato.

MB: Continuerai a lavorare con lui?
IS: L’ultima volta che ho visto Bill è stato alla festa per il suo settantesimo compleanno, in un club londinese. Se ce ne sarà la possibilità senz’altro, ma certo non possono usare sempre la stessa persona. Sono rimasto in contatto, comunque. Spero che saranno loro a supportare me, un giorno. Quella gente mi ha dato davvero una grande opportunità.

MB: La stessa cosa avvenne in passato con gli Animals e Chuck Berry…
IS: Esattamente. Parliamo di gente che non cerca di tenere il successo per sé stessa, ma di condividerlo con gli altri. Questo è positivo.

MB: Nel 2006 hai sperimentato il circuito blues della West Coast americana. Com’è andata? Pensi che da quelle parti i tempi siano maturi per una nuova “Blues Invasion”, o stanno cavandosela bene per conto loro?
IS: Non se la stanno cavando affatto. Non si può parlare di una vera scena blues laggiù; direi che le cose vanno più o meno come in Inghilterra. Certo, ci sono tanti musicisti di talento capaci di suonare del buon blues, ma il posto giusto dove andare è l’Europa, ora: Olanda, Belgio, Germania, Scandinavia. È stata un’esperienza interessante, ma non sono molto interessato a tornare. Chissà, forse il blues sopravvive nel Sud, nella West Coast ho trovato più che altro rock ‘n’ roll. È in Europa che voglio costruire la mia carriera, ed è qui che ci sono i veri appassionati di blues. Certo, in Italia la comunità è ancora piccola, ma penso che concentrerò la mia invasione proprio verso questo paese e la Spagna. Si tratta di educare la gente al blues.

MB:Standing In The Morning”, nel 2002, ha rappresentato una svolta significativa dal blues tradizionale a una selvaggia, paludosa, musica urbana. La connessione col passato resta chiara, seppur contaminata da influenze diverse.
IS: La mia casa discografica ha sostituito l’etichetta “Blues”, attribuitami inizialmente, con “Americana”, perché suono ogni tipo di musica che abbia radici americane. La prossima settimana farò il mixaggio di un album solo che ho appena terminato di registrare… col blues non ha nulla a che fare, se non per un pezzo. Tutto il resto è country, gospel, bluegrass. Quella musica ha il blues in sé, comunque. Come del resto il blues ha in sé il country. Musica americana, questo è ciò che amo. Quanto a “Standing In The Morning”, ho cercato di concentrarmi il più possibile sulla scrittura dei pezzi e dei testi, in qualcosa che ricorda lo stile di Tom Waits.

MB: È un grande album.
IS: Grazie! Ma non è stato così popolare quanto quelli che lo hanno seguito… “Meat And Potatoes” e “Swagger” hanno avuto un impatto molto maggiore. Per quel che mi riguarda lo considero la cosa migliore che abbia mai fatto, peccato però che la gente non sembri pensarla allo stesso modo!

MB: Anche “Hard as…” non era affatto male. Ho ancora la mia copia, che conservo gelosamente.
IS: Pare che qualcuno ne abbia rimediato una copia su eBay a centocinquanta euro, io però non mi sono beccato niente! È una cosa folle che qualcuno sia disposto a pagare una cifra del genere, ma anche un grande complimento. A saperlo glielo avrei venduto io per dieci.

MB: Stai dicendomi che ho fatto un buon affare?
IS: Sicuro. Mettilo su eBay e facciamo a mezzo.

MB: Scordatelo. Non ho nessuna intenzione di venderlo. Piuttosto, nel 2005 è venuto “Meat and Potatoes”, “Swagger” nel 2007 e entrambi sembrano ulteriori passi nella direzione presa con “Standing In The Morning”. Stai avvicinandoti alla tua idea di suono?
IS: Non ho niente del genere in testa. Non solo tratto ogni album come una cosa a sé stante, ma ogni singola canzone. Non so mai che cosa farò, a priori. A volte scrivo i pezzi direttamente in studio, mentre stiamo registrando. Non è molto professionale, la band odia questa mia abitudine. Funziona un po’ come: “Ok, ora che facciamo?”,Non lo so, non preoccupatevi”. Non saprei proprio dire quale sia il suono che ho in testa, quindi… ma forse un giorno lo troverò. Ciò che faccio è suonare, e questo è tutto. L’influenza blues è sempre presente, Muddy Waters, Howlin’ Wolf, Little Richard, Tom Waits… ma anche Hank Williams e tutti i ragazzi del country .Vedremo. Penso di non avere ancora raggiunto il mio pieno potenziale come autore, ma ci sto provando. Farti esperienza nella vita aiuta, perché puoi scriverne. Sono sempre in cerca della prossima canzone. Se un giorno potessi tirar fuori qualcosa come “Honky Tonk Women”, bè, sarei un uomo felice. Nonché milionario.

MB: E cosa mi dici del nuovo album al quale accennavi prima?
IS: Non ha un titolo, ancora. Dentro c’è B.J.Cole alla pedal steel guitar; è stato eccitante averlo con me! Lui ha suonato con John Cale, Sting, Albert Lee, Emmylou Harris e tantissimi altri. Attualmente lavora con Bjork. Quello strumento ha un suono semplicemente meraviglioso, sembra provenire da un altro pianeta.

MB: Uscita prevista?
IS: All’inizio di giugno, lo porterò nei festival quest’estate. La mia band non la prenderà bene, ma un solo ogni tanto ci vuole.

MB: C’è qualcosa che vorresti aggiungere? Di cui ti va di parlare?
IS: Spero, ed è la stessa cosa che direi agli inglesi, che i giovani italiani aprano le loro menti a questa musica. Sai, quando la sentono la amano, sempre, ma è necessario che la incontrino, altrimenti non c’è futuro. In Svezia, la scorsa settimana, il pubblico era di cinquantenni, e per lo più uomini. Proprio come in Inghilterra. Ma… e i ventenni? Se non cominciano a uscire e ascoltare, per chi suoneremo? Mi auguro che i giovani imparino a capire e apprezzare il blues. Solo così potremo garantirci un futuro.

MB: Perché pensi che accada? Non si può dire che in Inghilterra non abbiate una solida tradizione…
IS: Posso dirti, e molti musicisti lo confermerebbero, che spesso ti si presenta un ragazzino con un: “Hey! Sono qui perché i miei mi ci hanno portato. Pensavo che il blues fosse solo Eric Clapton o Gary Moore… non sapevo nulla del resto, e non avrei mai pensato che potesse essere così interessante, divertente, sexy! Questa roba non è deprimente!”. E proprio questo è uno dei problemi: la gente è convinta che il blues sia una roba che se la senti poi ti ammazzi. Posso però assicurarti che dopo la prima volta tornano, e si portano pure gli amici; non possono essere forzati, però, devono venire spontaneamente. In Olanda, e in generale in quell’area, i ragazzini lo fanno. E spero che in futuro accadrà anche altrove.

MB: Forse questo spiega perché molti musicisti americani stiano facendo base nel Nord Europa…
IS: Sicuro, è perché le condizioni economiche sono molto più favorevoli. Sai, in California ho suonato con alcuni ex componenti della Elvin Bishop Band, veri professionisti, tra i migliori con cui mi sia capitato di lavorare. Li pagavo cento dollari a testa per ogni serata e nel farlo ero davvero imbarazzato, ma là è normale. Non potrei mai ingaggiare un inglese per la stessa cifra. È impossibile, con quei soldi non ci campi, ma loro sono soddisfatti. È così che gira, semplicemente. Non c’è da sorprendersi se decidono di venire in Europa, dove possono spuntare mille o duemila dollari a sera. Non è la stessa cosa!


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